
Alti e bassi di War Machine
June 5, 2017La guerra è caos: War Machine ci fa volare (bassi)
Prodotto dalla Plan B di Brad Pitt (qui anche in veste d’interprete principale) e distribuito da Netflix, War Machine è sbarcato sulla piattaforma di video on demand più famosa e potente del globo terracqueo il 26 maggio 2017, pochi giorni dopo alla sterile polemica proveniente da Cannes legata ad Okja, un altro lungometraggio ad alto budget che verrà mostrato direttamente sui piccoli schermi domestici.
Il cinefilo doc, quello che se non vede almeno un film al giorno si sente morire, ha dovuto schierarsi: i film per la tv sono da considerare ancora cinema oppure no? È giusto che colossi come Netflix e Amazon Studios trasformino l’intrattenimento cinematografico in prodotti televisivi “usa-e-getta”? C’è chi dice sì, c’è chi dice no, c’è chi dice forse, c’è chi dice di non sapere da che parte stare, ma sotto la coltre del rumore di fondo risuona una sola voce più forte delle altre: il futuro del cinema è anche questo, che piaccia o meno.
Il pluridecorato generale Glen McMahon (Brad Pitt) si è arruolato nell’esercito perché prima di lui tutta la sua famiglia l’ha sempre fatto. Scemo solo in apparenza o forse per davvero, riesce comunque a fare una gloriosa carriera che culmina in una spedizione in Afghanistan dagli esiti incerti, confusi e non facilmente determinabili. Sean Cullen (Scoot McNairy), giornalista di Rolling Stone, sta scrivendo un articolo su di lui. Sarà una celebrazione, un epitaffio o la certificazione pubblica della sua inadeguatezza?
Servano solo come vaga indicazione, ma due pellicole come M*A*S*H (Robert Altman, 1970) e Dr. Strangelove (Stanley Kubrick, 1964) possono fornire un accenno d’idea al tipo di film che War Machine vorrebbe essere: una satira politico-militare, un attacco divertente e divertito all’establishment americano, lo sbeffeggiamento del rito della guerra come ineliminabile condizione umana e rodato motore economico. La formula si avvicina a quella di quei due capisaldi della cinematografia, gli ingredienti sono simili, ma il film Netflix non riesce ad elevarsi neppure per qualche istante a quei livelli.

Sei perplesso, Brad, è comprensibile, ma ti riprenderai anche tu.
Come già era successo a Deal of the Century (William Friedkin, 1983), un precedente mezzo flop che tanto avrebbe voluto proseguire la tradizione bellico-satiresca, anche War Machine inciampa e casca rovinosamente su se stesso perché non ha né la forza né l’ambizione ad essere veramente originale.
C’è il Presidente afgano Hamid Karzai (immancabile e onnipresente Ben Kingsley) che guarda Scemo & più scemo (Peter Farrelly, 1994) e ride come un matto mentre fuori dalla sua reggia il paese muore di fame, c’è un cerchio infinito d’inetti, incapaci, inadatti ai vertici del potere, c’è Glen che fa finta che non funzioni Skype perché non sa cosa rispondere ai suoi superiori, c’è una guerra in Medio-Oriente combattuta come se fosse una spedizione di caccia e c’è un tour nella più civilizzata Europa con una rigida tabella di marcia. Tutto molto carino, tutto molto simpatico e divertente, ma non basta. Il film si trascina fiaccamente e fallimentarmente verso la fine senza avere una vaga idea di cosa voglia essere o cosa voglia dire.
Volutamente ignorato fino a questo momento, David Michôd (Animal Kingdom, The Rover), regista del film, è qui irriconoscibile. Con War Machine, la ferocia e la spietatezza del suo cinema sono stati spazzati via da un film inconcludente. In attesa di un’improbabile rivalutazione ad opera delle future generazioni di cinefili, ora rimane solo il rammarico causato da un’occasione sprecata costata 60 milioni di dollari: senza la mano salvatrice di Netflix, il film avrebbe faticato non poco a ricoprire i costi di produzione con un’uscita nelle sale. Tornando a monte della questione, già questo, di per sé, la dice lunga su come si stiano evolvendo i tempi, ma quanto tempo reggerà l’ancora gettata dal gigante televisivo prima di spezzarsi?
– Simone Tarditi
La guerra è caos: War Machine ci fa volare (alti)
War Machine è indubbiamente un film molto impartente, sia per il periodo di uscita, sia per chi ha ospitato tale prodotto. La risposta di Netflix (Italia compresa) alle critiche pervenute da Cannes (per chi non ha seguito nulla, dal prossimo anno Cannes non ospiterà pellicole che avranno una distribuzione al di fuori della sala cinematografica) è stato sponsorizzare War Machine con cartellone pubblicitari di gran richiamo: il film era ed è “il grande cinema mondiale in diretta streaming”.
In questa situazione si inserisce perfettamente il nuovo film di David Michod che, per quanto riguarda la produzione Netflix per i lungometraggi, è sicuramente uno dei più imponenti. Dopo aver portato sia sperimentazione che grande qualità con le serie tv, il campo cinematografico è stato toccato solo recentemente dall’azienda e mettere insieme un grande regista (Michod) con un cast importante, portato avanti dallo stesso Brad Pitt, sia in vesti di attore che produttore, sicuramente ha attirato tutte le attenzioni del caso.
Il film ha ricevuto, giustamente, la sua dose di critiche positive che negative. Senza troppi giri di parole, ci sono almeno due o tre ostacoli narrativi che impediscono al film di carburare a pieni polmoni, l’elemento che fa da collante a tutte le sequenze viste nel film è un semplice giornalista di Rolling Stones che si trova a dover vivere insieme ad un bracco di militari, semplicemente… idioti. Termine più azzeccato non se ne trova, ma la loro idiozia ha una certa logica, all’interno di un quadro satirico dove, forse, il film è timido nell’esposizone dei fatti.
Chi ha la divisa è un uomo d’azione, chi ha giacca e cravatta (presidente Obama incluso) è un oratore che ha a cuore soltanto i suoi interessi, a differenza di loro che fanno la guerra per gli interessi del proprio paese. La guerra rende liberi, la guerra l’hanno inventata gli americani e solo essi possono portare pace. Combattendo.
Se c’è un elemento per cui si è contraddistinto il cinema di Michod e quindi, ottenuto lodi e attenzioni, è sicuramente l’interesse di incorniciare gli esseri umani nel loro lato più cavernicolo e spietato. Il cinismo presente in Animal Kingdom e The Rover qui è presente ma mescolato di nascosto, quasi chiedendo allo spettatore di farsi una propria idea sulle azioni malsane del generale McMahon e i suoi fidati uomini.
Serve un giornalista fidato e un’altra giornalista tedesca per mostrare le crepe su cui lavorare. L’egocentrismo di questi uomini corre di pari passo alle loro esigenze, ignorando il fatto che le ambizioni personali non coincidono con le ambizioni globali sulla risoluzione di questa guerra.
Questo è un caso reale che si manifesta in un circolo vizioso. Su questo aspetto profetio il finale (ricordiamo che il film è tratto da una storia realmente accaduta) mostra come, già preso in considerazione da Scorsese ne The Wolf of Wall Street, eventi di rilevanza nel mondo sono gestiti da persone che, per quanto pluridecorate, essenzialmente sono degli inetti, dei fuori di testa anarchici che non hanno nulla a cuore, se non una semplice idea di perfezione da abbinare con i propri interessi. In questo caso se la missione è pace, per McMahon e i suoi uomini la missione è guerra, conquista e dittatura militare. Per cui, per quanto non approfondito nel migliore dei modi, il terzo lungometraggio di Michod si incastra perfettamente con i rispettivi lavori precedenti. Se sia in una famiglia, o in un futuro post apocalittico o nelle gerarchie militari (e ancor di più, in una storia vera), l’uomo si ne esce sempre sconfitto. Migliaia di anni sulle spalle e ci si massacra ancora senza pietà e invece di ragionare su McMahon la domanda importante viene dalla popolazione civile afghana che il film inquadra più volte i loro occhi spaesati: perchè tutto questo?
– Gabriele Barducci
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