
Cronaca familiare: da Pratolini a Zurlini. Le immagini promemoria
June 14, 2017“Cronaca familiare” è la trasposizione cinematografica del ‘62 di Valerio Zurlini realizzata dall’omonimo romanzo di Vasco Pratolini. La pellicola, vincitrice del Leone d’Oro alla 23esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, ripercorre le vicende autobiografiche che spinsero lo scrittore fiorentino a mettere nero su bianco la storia della sua vita ed il legame con il fratello prematuramente scomparso. L’io narrante del film è Enrico (Marcello Mastroianni) e nella redazione del giornale dove lavora arriva la notizia della morte del fratello Lorenzo. Conosciamo le vicende del passato attraverso la voice off di Enrico: i suoi ricordi prendono forma attraverso il racconto, il viaggio nella memoria diventa immagine. Il protagonista, nel rivolgersi costantemente al fratello conosciuto troppo tardi, cerca di esorcizzare gli anni bui della propria esistenza e di trovare una sterile espiazione. Accanto alle fotografie in bianco e nero dei titoli di testa (che ritroviamo anche nei titoli di coda) si posa il verso foscoliano: “Il fior de’ tuoi gentili anni caduto”. Zurlini riprendendo la dedica del romanzo, avvisa lo spettatore di sintonizzare la propria sensibilità verso la commossa partecipazione, al leit motiv elegiaco presente nell’intera struttura narrativa. Il regista pensava alla realizzazione cinematografica di “Cronaca familiare” già nel ‘50 e la “vedeva” possibile solamente a colori, in anticipo sui tempi. Dello scrittore aveva già letto “Il quartiere” e “Cronaca di poveri amanti” ma è non appena terminata la lettura di “Cronaca familiare” che Zurlini ha sentito “dilatare dentro di sé una dolorosa commozione unita alla serenità consolatoria che provoca sempre l’incontro con un’opera d’arte”. (Come dirà nelle pagine autobiografiche del suo Diario Veneziano). Decide così di telefonare a Pratolini e nonostante il permesso per il film arrivi nel ‘62, nasce una profonda amicizia tra i due che durerà tutta la vita e sarà la base di un forte sodalizio intellettuale ed artistico. Zurlini era passato dai cortometraggi ai lungometraggi su volere della Lux che gli aveva commissionato la realizzazione del film tratto dal romanzo corale di Pratolini: “Le ragazze di Sanfrediano”. Sarà poi la Titanus a considerare l’idea messa in stand-by per dodici anni per “Cronaca familiare”: il regista può finamente riscattare quel senso di “non finito” che gli aveva lasciato la precedente trasposizione pratoliniana: i toni corali e la “joie de vivre” della commedia sono abbandonati per virare verso un cupo intimismo. Zurlini si era fatto conoscere e apprezzare dal pubblico con “Estate Violenta” del ‘59 e “La ragazza con la valigia” del ‘61. Sarà proprio quest’ultimo titolo a tendere un fil rouge verso “Cronaca familiare”: stesso infatti è l’attore protagonista (Jacques Perrin), il suo nome Lorenzo ed il suo essere orfano di madre.
Nella prima scena del film, Enrico riceve la telefonata che gli rivela il triste epilogo della lunga malattia del fratello. Enrico si abbandona su una sedia nella stanza del giornale: l’ambiente intorno è trascurato, carte per terra e muri che cadono a pezzi. In silenzio, lo sguardo assente. Poi si alza come per automatismo ed esce per strada. La macchina da presa lo segue per le vie deserte della città: un piano sequenza che ci porta fino alla sua stanza in affitto con pile di libri ovunque. La musica di Goffredo Petrassi amplifica il dolore e lo porta lontano, il viaggio a ritroso nella memoria del protagonista ha inizio mentre osserva il quadro alla parete: dalle quattro mura del presente passiamo all’infanzia in campagna, il ricordare non ha limiti di tempo e di spazio. Vediamo anche noi una breve sequenza di scorci del paese natale toscano che sembrano dei dipinti di Ottone Rosai, qui immortalati su pellicola grazie alla splendida fotografia di Giuseppe Rotunno (premiata nel ‘63 con il nastro d’argento). Il paesaggio dei campi, i muri di pietra e le strade deserte ci danno l’impressione di un silenzio surreale.
Sempre tramite l’io narrante conosciamo adesso l’antefatto che ha portato i due fratelli su strade diverse, a differenza del libro in cui le cause della separazione ci vengono descritte fin dalla prima pagina. Siamo nell’autunno del 1918, la madre è morta per complicazioni pochi giorni dopo la nascita di Lorenzo. Vediamo la nonna che sale le vie di pietra e la balia che porta il piccolo nei giardini della villa presso cui lavora. La cronaca procede in velocità: il barone (un Sir inglese) prende a cuore la storia del bambino e volendolo aiutare lo fa prendere in adozione dal suo maggiordono (il Sig.Salocchi) che gli cambierà subito nome scegliendo il “meno volgare” Lorenzo.
“Così entrasti a Villa Rossa e iniziò a costruirsi intorno a te, giorno per giorno, quella prigione di affetti, di abitudini, di complessi, dentro la quale ti saresti poi trovato condannato”.
(Cronaca Familiare di Vasco Pratolini, edizioni Mondadori)
A otto anni Enrico vede Lorenzo come la causa della morte della mamma. Le persone intorno, nel ricordarglielo costantemente gli rendono impossibile affezionarsi al fratello. Le visite alla Villa Rossa diventano presto una formalità in cui parlare della madre è tabù. Enrico e la nonna, sentendosi fuori luogo, si tratterranno sempre meno. Anche I due fratelli si vedono come estranei: il quartiere popolare originario dell’uno stride con il mondo “altolocato” tutto regole e costrizioni dell’altro. Le strade si separano, un radioso avvenire attende Lorenzo. Ma la sua tanto osannata “fortuna” che gli fa trascorre l’infanzia in una gabbia dorata, isolato dal mondo esterno, gli sarà utile quando dovrà contare su se stesso?
Inverno del ‘35. Lorenzo ha 17 anni e una sera al biliardo incrocia lo sguardo del fratello maggiore. I due si riconoscono ma c’è imbarazzo: Enrico preferisce fuggire piuttosto che dare giustificazioni all’assenza degli ultimi anni. Sarà Lorenzo ad andarlo a trovare dopo un paio di mesi “in via Ricasoli, accanto all’uscita di sicurezza del cinema Modernissimo” (stesso indirizzo di Pratolini). La stanza è in penombra (gli hanno tagliato la luce) e vive in ristrettezze economiche. Stessa sorte è toccata incredibilmente a Lorenzo, a seguito della morte del barone e dei continui trasferimenti del padre adottivo. Prima di addormentarsi, chiede al fratello di farsi raccontare com’era la mamma, cosa le piaceva, come si vestiva. Vuole provare a rendere concreto un fantasma che non ha mai conosciuto e che sogna tutte le notti. I due andranno poi a parlare dal Signor Salocchi riguardo il futuro di Lorenzo. In una stanza che trasuda oggetti d’arte accumulati, emerge la fragilità della situazione in cui si trovano padre adottivo-figlio e soprattutto i loro contrasti. Lorenzo deve imparare a farcela da sé, trovare un lavoro. Enrico viene deriso e messo in ridicolo: il suo essere vagabondo è un esempio negativo, da non seguire. Ciononostante Lorenzo si trasferisce da lui e questo è il periodo più felice dell’intera “Cronaca familiare”: i due imparano a conoscersi, a fidarsi l’uno dell’altro e a provare un sincero affetto e comunione intellettuale reciproca. La figura della nonna sarà fondamentale per farli convergere: i fratelli vanno spesso a trovarla nello stanzone grande e desolato dell’ospizio. Interni che ricordano i quadri di Giorgio Morandi (grande amico del regista) in cui le persone sembrano gli oggetti dei suoi quadri: galleggiano in spazi troppo ampi. La scena distesa del pranzo pasquale alla trattoria, in cui sono gli unici nella stanza, è piena di ricordi e leggerezza. Dalla finestra aperta arriva la musica, mentre alcune persone stanno ballando sulla terrazza.
“Le parole, le risa, nell’atmosfera limpida, bagnata dal sole, avevano un suono particolare, come se rimanessero sospese nell’aria in attesa di un’eco che non v’era”. (Cronaca familiare di Vasco Pratolini ed. Mondadori)
Lorenzo evolve, scoprendosi in nuovi atteggiamenti che il se stesso di prima richiama subito all’ordine.
I silenzi con il fratello sono momenti pieni di affetto. Enrico ricorda che lo guardava come per imprimere la sua immagine dentro si sé: “Eri una cosa dolce, fresca che mi dava refrigerio”. Poi Enrico si ammala e trascorre due anni in sanatorio. Riceve le lettere di Lorenzo: timide e schive come lui, timorose di espandersi ma in loro riconosce: “una delle cose che lo attaccavano alla vita, una delle essenziali”. Enrico ritorna ma non lo cerca subito: in Eurora è scoppiata la guerra ed entrambi lottano per sopravvivere. Lorenzo si trova continuamente disoccupato e provato dalle quotidiane rinunce della povera gente a cui non è abituato. Scopre finalmente il mondo con i propri occhi, ma il suo è un guardare doloroso: il mondo esterno è ostile, non ha nulla di familiare, gli è impossile orientarsi. La realtà lo rifiuta perché incapace di adattarsi al nuovo stato delle cose. Nulla della vita precedente gli ha dato gli strumenti per affrontare la nuova esistenza: rimane bloccato in un’empasse senza via d’uscita.
Delle modifiche sono inevitabili quando dal testo passiamo alla rappresentazione. I ricordi evocati dalla scrittura riuniscono nella stessa pagina sia tempi che spazi lontani nella realtà. Le immagini che prendono forma nel film hanno bisogno di vivere nel momento e da qui l’esigenza di adattare la sceneggiatura facendo parlare i personaggi al presente e di aggiungere dei momenti che non esistono nell’opera originale. Zurlini sente la necessità di focalizzare maggiormente sull’elemento del rimorso di Enrico per definire il rapporto con il fratello: da qui la creazione di Pratolini delle due scene, per venire incontro alle esigenze dell’amico regista e alla buona riuscita dell’opera cinematografica. Nella prima scena extra: Lorenzo va a trovare Enrico alla tipografia dove lavora ma quest’ultimo ha uno scatto d’ira accusando il fratello del suo essere inetto e viziato, incapace di sapersi adattare e tenersi stretto un posto di lavoro. La seconda, di poco successiva, è in esterno: i due camminano parallelamente per strada, l’aspetto etereo dell’uno è contrapposto dalla virilità dell’altro. Il silenzio è spezzato dall’esasperazione di Enrico, che volendo dimostrare il suo essere libero da ogni coercizione culturale, rovescia un carretto per strada. Lorenzo lo metterà subito a posto, incapace di trasgredire quell’insieme di ordine e valori ricevuti nella sua educazione. Gesti antitetici che segnano caratteri e modi di affrontare la vita e gli eventi esterni in modo completamente opposto. Ognuno di loro porta i frutti del contesto in cui sono cresciuti separati, il legame di sangue non riesce a colmare del tutto lo scarto che li separa.
Nonostante siano cresciuti in ambienti lontani tra loro, sono accomunati dal desiderio di comunicare i propri sentimenti, in una comunione spirituale che li faccia specchiare l’uno nell’altro. Lorenzo ha vergogna della propria condizione e si autoemargina, prendendo le distanze dagli amici. Un complesso di inferiorità che ha del patetico ma non per questo meno drammatico e doloroso. Per lui è difficile scalfire il muro delle convenzioni che il passato gli ha costruito intorno. Incapace di agire e di cambiare la situazione rimane inerme, vittima votata al sacrificio. Passano gli anni e le occupazioni-preoccupazioni: mette su famiglia. Ma neanche “il vero amore dei poveri” riesce a consolarlo, a fargli dimenticare le angosce. È un amore fragile, in cui due anime dovrebbero unirsi per farsi coraggio e resistere, ma Lorenzo scopre presto che la donna che ha sposato non è l’altra metà di se stesso: tutto si disperde, come un mosaico che non combacia. Ha commesso l’errore di sbagliare a scegliersi la compagna, lo rimprovera l’io narrante nel romanzo come nel film. Enrico ha lasciato Firenze e dopo la liberazione riceve una lettera di Lorenzo: è malato e ricoverato a Roma. Un “corpo come pagina bianca” lega per similitudine il mestiere di medico con quello dello scrittore: entrambi procedono per tentativi, facendo un rigo nero su ciò che non va bene. Gli sbagli vanno cancellati e corretti ma rimane una pagina come un corpo pugnalato, perché il racconto che scrivono sul fratello è fatto di carne e sangue. Tentano in ogni modo di curarlo ma come diranno i medici dopo vari errori: “l’organismo non reagisce più”. Le visite di Enrico sono tutte carezze e affetto: gli parla ancora della madre, riscattando così la falsa immagine (e cause di morte) che gli altri le hanno incollato fin da bambino. Nel finale amaro, Enrico è sotto la pioggia: alla ricerca della marmellata d’arancio che non trova. Poi la scena di Lorenzo, che per un “malinteso”, urla per la prima volta la sua volontà: vivere. Il suo disperato aggrapparsi alla vita apre l’ultima scena in cui Enrico lo guarda prima di essere trasferito nella clinica di Firenze: vuole ricordarlo vivo. Ed intanto esplode un giugno crudele, perché in dis-armonia con ciò che prova il protagonista-scrittore.
Zurlini-Pratolini: ritratti d’artista in sovrapposizione.
“Come Morandi era solito tenere per lunghi mesi i suoi quadri perfettamente finiti e già firmati appesi alle pareti del suo studiolo per controllarne la tenuta o gli eventuali cedimenti, così Pratolini conserva per anni interminabili nel segreto dei suoi cassetti opere scritte, corrette, riscritte, riviste, trasformate – oppure inalterate – sinché una pausa della sua inquietudine non gli consente il doloroso strappo della separazione”.
(Valerio Zurlini in “Pagine di un diario veneziano – Gli anni delle immagini perdute”, edizioni Mattioli)
Per mantenere il realismo del romanzo autobiografico (che Pratolini ha scritto nell’inverno del ‘45 ma pubblicato due anni dopo) lo sguardo di Zurlini diventa quasi documentaristico, soprattutto in alcune scene in esterno nella prima parte del film che tanto ricordano quel quadro di Ottone Rosai nella stanza del protagonista. Inoltre sono tagliate alcune scene nelle vie più importanti del centro di Firenze (descritte nel libro) per dare maggior respiro alle giornate dell’infanzia. Numerosi i momenti in cui “non succede nulla” in cui il silenzio colma i primi piani e campi lunghi del piano-sequenza. La macchina da presa si muove lenta, tra la voce fuoricampo che ricostruisce l’immagine della memoria. La scrittura scabra ed essenziale di Pratolini si riflette nel cromatismo degli ambienti, nei gesti dei protagonisti: lo spettatore osserva ciò che la fisicità degli attori evoca, quel rimediare al tempo perduto, attraverso un abbraccio o cercando la mano dell’altro per riempire una mancanza. Il rapporto ritrovato è un delicato ritratto che mette in risalto l’impotenza e il dolore del protagonista (e dello scrittore stesso) davanti alla sofferenza e malattia del fratello. La desolazione è una costante in cui i due dovranno fare i conti in quegli interni “troppo spogli”. Zurlini e Pratolini procedono per sottrazione: tolgono il superfluo per lasciare l’essenza: rimane un tratto rarefatto che contorna gli oggetti e le persone, sfumature di ombre sospese nelle stanze vuote evocate dal racconto (per Enrico) o solamente sognate (per Lorenzo). Citando gli interni ed esterni presenti in “Cronaca familiare” abbiamo ricordato i quadri di Morandi e di Rosai. Un altro legame del regista con i pittori risiede nelle stesse origini emiliane e la volontà di ricordarle attraverso le loro opere: ogni film di Zurlini è ambientato in una precisa città (Bologna e Rimini per “Estate violenta”, ancora Rimini per “La prima notte di quiete” e Parma per “La ragazza con la valigia”). Locations che non ha mai scelto “a caso” perché per il regista esiste un legame inscindibile tra la città e il protagonista dei suoi film che sarà reciso solamente dalla morte, come se con la persona se ne andasse l’idea di un luogo. Un altro elemento autobiografico che possiamo riscontrare nei film zurliniani è quello con la musica: durante la guerra era proibito ballare ma di sera nei giardini delle ville si teneva il volume basso di dischi considerati “eretici” come Nightmare di Caravan o Mood Indigo di Temptation (quest’ultimo disco accompagna l’evocativa scena del film “Estate violenta” in cui il cielo rischiarato dai bengala nemici illumina i volti dei protagonisti, come un presagio di morte). Valerio Zurlini è stato un autodidatta: l’amore a 360 gradi per la cultura l’ha accompagnato per tutta la vita. Fin da ragazzino si è scelto “una buona scuola”: dagli anni di formazione segnati da “un appassionato amore clandestino per il cinema” in cui studiava i film dei suoi registi prediletti per assimilarne lo stile (Ford, Eisenstein, Renoir, Wyler, Dreyer) alle letture durante le ore di algebra. Come Pratolini, rimane affascinato dei personaggi tomentati e contradditori di Dostoevskij: la vicinanza sentimentale al mondo degli ultimi, alla vita di sacrifici e di piccole gioie del popolo minuto è riscontrabile nelle opere di entrambi. Inoltre numerosi gli incontri indelebili in uno scambio continuo di arte: l’amicizia e il sodalizio intellettuale con Pavese, Vittorio de Sica, Antonioni, Giorgio Morandi, Renato Guttuso, Giuseppe Rotunno e Visconti (quest’ultimo lo appoggerà dai tempi dei corti). E poi Mastroianni: il loro primo incontro risale a sedici anni prima di “Cronaca familiare”, quando il regista lo ha visto sul palco in una recita studentesca a Roma. Gli aveva parlato quando non era in scena e dell’attore ricorderà sempre lo “sguardo buono e aperto, i lineamenti sfumatamente popolari, vestito con dignitosa modestia”. Zurlini è stato anche un grande appassionato di arte figurativa (soprattutto del ‘500 e ‘600). Per lui un film vive come opera d’arte, autoformandosi e definendosi in nuova immagine. Realizzare i suoi otto lungometraggi è stato come trovare una pausa dai suoi pensieri, una “notte di quiete” alle inquietudini che legavano il regista allo scorrere del tempo ed infine alla malattia. La sua consapevolezza di riuscire a portare a termine poche cose nella vita, lo fa concentrare in ciò che per lui è importante. “La riproduzione dell’immagine come promemoria” è una costante che accompagna le considerazioni di Zurlini nel suo ultimo periodo segnato dall’angoscia di non riuscire a mettere ordine a tutte le sensazioni che i ricordi gli sovrapponevano e il rimpianto di non essere riuscito a plasmare le sue idee, dovendo lasciare in sospeso alcuni suoi progetti (“Verso Damasco”, “Il sole nero” e “La zattera della medusa” rimangono ad oggi, solamente delle sceneggiature).
“La memoria riesce con il tempo a decantare i momenti di magia e sa restituirli dietro il tenue spessore di un velo di bellezza. Allora l’emozione riesce ad identificarsi con l’oggettiva grandezza dell’opera che ti ha aggredito e tutto si calma e si esalta nella commossa prospettiva del ricordo”.
(Valerio Zurlini in Pagine di un diario veneziano – Gli anni delle immagini perdute – edizioni Mattioli)
- Lettera da una sconosciuta: Max Ophuls e il mito di Vienna - March 15, 2023
- Rebecca di Hitchcock, fonte di ambiguità - February 9, 2023
- La Valle dell’Eden: dalle pagine di Steinbeck al Cinemascope di Kazan - January 11, 2023