
La Danseuse – Io Danzerò: verso nuove forme d’espressione
June 22, 2017Arriva anche nelle sale italiane La Danseuse: Io Danzerò, primo lungometraggio della regista francese Stéphanie Di Giusto, presentato nello scorso Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard. La sceneggiatura si sviluppa dal saggio biografico scritto da Giovanni Lista nel 1994 che vide nella figura della danzatrice Loïe Fuller una pioniera del movimento futurista. Quindi riflettori puntati sulla nostra protagonista (il cui nome originario era Mary Louise Fuller) “d’avanguardia” che nei decenni a cavallo tra ‘800-’900 ha gettato le basi per una danza libera arrivando ad ispirare, negli stessi anni, un’altra ballerina-icona: Isadora Duncan.
La Fuller pur non “nascendo” come danzatrice, riuscì attraverso le sue originali performances, ad inventare un nuovo modo di esprimersi ed intendere la coreografia. L’unico legame che mantiene con la danza accademica è nel ri-utilizzo della musica classica per i suoi balletti che dal 1892 l’hanno resa celebre come la danza serpentina e la danza del fuoco (quest’ultima ripresa nel cortometraggio del 1898 di Georges Méliès).
Nella prima parte della pellicola, ambientata nel paese natale della Loïe (in Illinois), conosciamo la sua naturale predisposizione alla creatività: alterna infatti i lanci con il lazo con il disegnare fiori. Ma questa cowgirl che legge Shakespeare ad alta voce, dovrà trasferirsi a Brooklyn dalla madre puritana che tagliandole i capelli e alloggiandola in una stanza monacale ha in mente per lei una vita ben diversa da quella che ha avuto fin ora. Sarà tra provini, spettacoli di magia ed imprevisti, che la giovane darà una svolta alla sua esistenza: improvvisa una specie di “ballo” girando su se stessa per intrattenere il pubblico.
Il suo è un vortice spontaneo, primordiale che incanta chi lo guarda. Nelle sequenze a teatro la vediamo esercitarsi senza sosta, in un lavoro costante su se stessa e sul personaggio che si è letteralmente cucita addosso (con le lenzuola). Affina la tecnica per evocare sul palcoscenico immagini fluttanti di petali, ali di farfalla e fiamme: sono linee fluide e sinuose che cambiano colore al variare della luce e tonalità. La scena di NY le andrà presto stretta perché il suo estro fatica ad adattarsi al contesto americano del suo tempo. Salpa quindi verso l’Europa, inseguendo il richiamo della ville lumière: un sogno consigliato e finanziato dall’amico Louis Dorsay (Garspard Ulliel), un nobile decaduto che intreccerà con la Fuller un legame ambiguo.
A Parigi troverà nella tecnologia messa a disposizione dalla Belle Epoque, i mezzi per sperimentare le sue idee abbozzate sul taccuino: le sue esibizioni saranno sempre più spettacolari grazie all’uso innovativo che lei stessa farà dell’illuminotecnica. Lampade colorate e vernici fosforescenti esaltano i suoi movimenti creando un’ illusione ottica. La Fuller diventa presto promotrice di se stessa esibendosi non solo in teatri, ma anche su navi, circhi, locali notturni e spettacoli burlesque. La sua immagine verrà resa immortale nei tanti affiches (celebri quelli delle Folies Bergès) come nei disegni di Toulouse-Lautrec e nelle sculture di Rodin. La regista ha voluto Soko (cantante ed attrice francese) per interpretare la protagonista perché conosce la determinazione che quest’artista poliedrica mette in tutto ciò che fa. Soko è una Loïe che non volendo controfigure si è allenata sette ore al giorno per mesi: sentire sulla propria pelle i sacrifici della danzatrice le fa rendere più vero il personaggio.
Ne La Danseuse vi è un perfetto connubio tra movimento, luce e colore. La fotografia (di Benoît Debie) coglie al meglio sia gli interni rischiarati dalle candele (nei palazzi) o illuminati (nei teatri) come gli esterni diurni e notturni nelle vie della città o nella natura. La cura maggiore è però riservata ai dettagli scenografici (Carlos Conti) e nei costumi d’epoca (Anaïs Romand). Per la scena teatrale invece, si è optato per location diverse prese “in prestito” dalla realtà per essere messe servizio della finzione cinematografica: L’opéra di Vichy “diventa” così il teatro americano mentre per Les Folies Bergère è stato utilizzato il teatro di Praga.
Per Loïe la vita artistica al teatro parigino si rivela ricca di stimoli: nel nuovo ambiente può elaborare progetti e dedicarsi agli allenamenti, a discapito della salute. La sua prima a Les Folies Bergès è connotata da una forte spettacolarità grazie al perfetto mix di musica, costume e movimenti che assorbono le mille luci proiettate. Poi ritorna improvvisa la scena (intravista nell’incipit del film) in cui la protagonista, svenuta a sipario quasi calato, è stata portata via in un corridoio di flash. Primi segnali di un qualcosa che non tarderà a rompersi: il suo fisico robusto rifletterà nei lividi e nella stanchezza, una fragilità dell’anima. Incontra Louis (i due non si vedevano dai tempi di N.Y) che le farà aprire una “scuola di danza” in un suo palazzo. Le allieve ospitate vengono iniziate alla nuova tecnica attraverso esercizi-addestramenti impartiti dalla maestra ma ci saranno anche momenti di distensione e condivisione spirituale. Fortemente evocativa la sequenza della danza nel bosco-giardino della villa che rimanda alle immagini de Le baccanti di Euripide: la Fuller e le ragazze sono come menadi danzanti e la loro libertà e frenesia è sottolineata dal montaggio stile video-clip. In quest’atmosfera sospesa tra un’ Arcadia e le prove per l’opera con artisti giapponesi, entra in scena una giovanissima Isadora Duncan.
L’interpretazione di colei che sarà destinata a diventare una leggenda della danza segna il debutto su grande schermo dell’eterea Lily-Rose Depp. I balletti improvvisati nelle sale del palazzo e le sue esibizioni sul palco, desteranno scandalo sia per la sensualità dei movimenti che per la trasparenza delle vesti ma per lei è come un gioco: si diverte a sedurre chi la sta osservando. Isadora Duncan condivide con Loïe Fuller la riproduzione della realtà tramite il corpo, lo spazio ed i movimenti ma sarà la prima che nel corso del XX secolo riuscirà a far affermare la danza libera europea, che si trasformerà in seguito nella modern dance americana.
Isadora insegnerà le sue discipline nelle scuole da lei aperte nelle capitali mitteleuropee, in Grecia e a NY. Come la maestra contesta la chiusura della danza del suo periodo, ma l’allieva troverà un’originaria purezza espressiva nella danza ellenistica proprio per un bisogno di ritrovare nell’innata libertà dell’uomo di agire, una sintesi autentica tra pensiero, emozione e gesto. Quindi via tutto ciò che imprigiona l’essere in strette convenzioni: il corpo non è più ingabbiato in corsetti e costumi stretti ma avvolto da stoffe leggere, i capelli vengono liberati dallo chignon e rimangono sciolti, tolte anche le scarpe a punta per ballare scalzi.
I rapporti Loïe-Isadora muteranno dall’amicizia alla rivalità: la nostra protagonista (dopo Louis) intreccerà anche con l’allieva un legame sentimentale ambiguo. I continui dissidi, problemi di vista e l’abbandono le faranno toccare il fondo ma ancora una volta sarà la sua passione-ossessione a salvarla. Torna a ballare, stavolta su di una macchina teatrale circondata di specchi: il prototipo (da lei creato) è nella scena in cui Louis è seduto alla scrivania dell’artista. L’atto di vedere il proprio riflesso su più superfici, rimanda al rispecchiarsi nell’altro e verso un altrove: alla visione di ciò che accadrà. Il finale de La Danseuse abbandona la grandiosità del montaggio in parallelo che sovrapponeva l’esibizione di lei e la corsa in auto di lui: i piedi della danzatrice sono nudi, in equilibrio sul verde.
“Une fleur de rêve avait surgi des ténèbres” – Jean Lorrain
- Lettera da una sconosciuta: Max Ophuls e il mito di Vienna - March 15, 2023
- Rebecca di Hitchcock, fonte di ambiguità - February 9, 2023
- La Valle dell’Eden: dalle pagine di Steinbeck al Cinemascope di Kazan - January 11, 2023