
Psycho di Alfred Hitchcock, la frattura della coscienza come estetica della colpa
July 17, 2017La cinematografia, e l’arte più in generale, è sempre stata affascinata dai disturbi della coscienza, con l’occhio sempre proteso a scoprire, esaminare, esorcizzare la matrice ribollente della psiche umana. Da Strade perdute di David Lynch (ed in realtà gran parte della sua filmografia), ripescando le nozioni de Lo strano caso del Dottor Jekyll e del Signor Hyde, passando per Secret Window di David Koepp, Nascosto nel buio di John Polsom, Shutter Island di Martin Scorsese, per approdare nell’ultimo, bellissimo Split di M. Night Shyamalan. Inevitabile, dunque, che un coacervo di pulsioni e repressioni psicologiche, qual era Alfred Hitchcock, fosse attratto dal racconto di un caso di personalità multipla, tratto dall’omonimo romanzo di Robert Block.
Solitamente, nei film c’è molto di romanzato. Gli stessi psichiatri per lungo tempo hanno messo in dubbio la reale esistenza di un disturbo dissociativo della coscienza talmente strutturato da originare personalità differenti nello stesso corpo. Eppure, basta osservare i titoli di testa di Psycho, generati dalla genialità astrattista di Saul Bass e fusi alla colonna musicale di Bernard Herrmann, per comprendere sin da subito l’intento di accuratezza dell’opera: i titoli scorrono su sfondo nero, e subito si decompongono, si fratturano e scompaiono nell’ombra. Perché, a voler guardare alla sostanza, si tratta proprio di questo.
Inquadrato nella cornice classica, strutturata, industrializzata, del genere giallo, Psycho è al tempo stesso il dispiegarsi di un caso clinico che preserva il fascino dell’attendibilità medica, e un mezzo per esplicitare ancora, attraverso la macchina da presa, uno sguardo sull’uomo e sui suoi tentativi di equilibrio nello stare al mondo.
Il meccanismo della paura, in Psycho, assai sottile perché giunge con calma, si muove serpeggiando nell’inconscio e sbocca sull’immagine nella forma dell’intuito, con uno sguardo estraneo, un tono di voce alterato, un movimento brusco, a generare l’angoscia in un contesto all’apparenza normale, innocuo (l’unheimliche freudiano, tanto caro al Lynch di Eraserhead). Norman Bates (Anthony Perkins) è il mite proprietario di un motel, ma è anche un individuo infelice, dalla psiche già tormentata nell’infanzia, che ha subìto negli anni, dopo la morte del padre, la presenza di una madre autoritaria, possessiva, opprimente, e che egli stesso ha ucciso, traumatizzato dalla presenza del nuovo amante della donna.
Il rimorso, seguito al delitto, è stato il catalizzatore della dissociazione della personalità: incapace di svincolarsi dalla colpa, una parte della coscienza è cresciuta nelle forme della madre, si è espansa, ha acquisito una tale complessità da divenire indipendente da Norman, e ne ha preso il sopravvento. Il meccanismo del trauma, fondamentale per la rottura, è comune ad altri disturbi dissociativi, come il disturbo post traumatico da stress, di cui si ebbe un’epidemia dopo la guerra nel Vietnam (chi ha visionato Il Cacciatore di Michael Cimino o American Sniper di Clint Eastwood conosce la lucidità con cui il cinema ha rappresentato la drammatica portata del disturbo).
Nel contesto di Psycho, è emblematico come il rimorso diventi per Hitchcock il pretesto ideale per raccontare il suo punto di vista, l’idea che il senso di colpa abbia condotto il mondo occidentale alla repressione dell’aggressività e del desiderio sessuale, plasmando masse perbeniste che nascondono una coscienza pronta all’implosione (si tratterebbe dell’annullamento degli istinti umani operata dallo Stato, a trasformare l’uomo in arancia meccanica, che tornerà dopo qualche tempo nel binomio Burgess/Kubrick).
Norman Bates vive costantemente con l’idea che la madre possa punirlo per le sue pulsioni, ed è la personalità-madre che commette, per gelosia, gli omicidi di giovani ragazze di cui la personalità-Norman si infatua. Per Hitchcock, l’idea della punizione diviene ossessione, e paura per l’uomo addomesticato. Al tempo stesso, i meccanismi della dissociazione, ovvero l’amnesia, la depersonalizzazione (vedere il proprio corpo proiettato all’esterno) e la derealizzazione (percezione distorta del mondo), potrebbero essere facilmente sfruttati da una mente tormentata come quella di Hitchcock (eppure straordinariamente ironica, segno di grandissimo coraggio) come alibi per allontanare da sé la colpa di quei pensieri, quelle ambizioni, quella terribile fascinazione per il proibito.
L’intero Psycho si regge sul meccanismo dell’esorcizzare il timore per l’autorità, per il potere che diviene anarchico (concetto poi sviscerato con lucidità dal Pasolini di Salò o le 120 giornate di Sodoma). Quel potere che allegoricamente era rappresentato dagli uccelli, nell’omonimo film, calati nella realtà a punire gli uomini, senza una spiegazione, senza discriminare nulla, come un’apocalisse di giustizia bendata esercitata da volatili spietati.
Al tempo stesso, è irresistibile l’attrazione per ciò che è considerato errato, peccaminoso (l’accezione religiosa è imprescindibile), anche intriso di fascino disgustoso o decadente. Allora lo stile si fa portavoce di una scopofilia tipica del cinema moderno, e in particolare di quello hitchcockiano, in cui lo sguardo della macchina da presa consente una visione parziale delle cose, mette in mostra l’atto stesso di una visione nascosta (o proibita) da cui si è irrimediabilmente attratti (La Finestra sul Cortile, a questo proposito, è un trattato sulla scopofilia). Poiché l’occhio della camera è arricchito dalle suggestioni che provengono dalla vita fantasmatica, l’inquadratura è permeata da violenti contrasti di luce, di matrice espressionista (ancora Lynch), e frequenti oscillazioni tra la piattezza e l’abnorme profondità di campo.
L’elemento surrealista, in Psycho, diviene dominante poiché è necessario rafforzare l’alternanza dello sguardo, con movimenti di macchina che si bloccano, non potendo avere accesso alla verità di ciò che viene narrato (il movimento elegante della macchina da presa che vorrebbe entrare nella camera della madre di Norman, per vederla finalmente in volto, mentre litiga col figlio), punti di vista errati, in modo da ricreare l’incertezza, e poi soggettive che pullulano fino a divenire la quasi totalità delle inquadrature, intervallate da altre, oggettive, che riescono a spaesare, confondere ulteriormente, smarrirsi nel gioco dei ruoli e delle apparenze, in un universo in cui la verità sembra inafferrabile, perduta per sempre, sul dominio delle ipotesi e della paranoia.
La normalità di Norman Bates è la normalità fittizia degli uomini, e lo smascheramento del suo morbo (geniale la sovrapposizione, nel finale, del volto scheletrico della madre con il Norman-madre) è il disvelamento della sostanza repellente di cui si compongono gli anfratti oscuri della psiche umana.
FONTE: Sandro Berardi. L’avventura del cinematografo. Biblioteca Marsilio 2007.
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