A girl walks home alone at night: una Carmilla underground

A girl walks home alone at night: una Carmilla underground

August 24, 2017 0 By Mariangela Martelli

“Camminavamo senza cercarci pur sapendo che camminavamo per incontrarci”
Rayuela, il gioco del mondo. Julio Cortazar edizioni Einaudi.

 “A girl walks home alone at night” è il primo lungometraggio della regista Ana Lily Amirpour: debuttato al Sundance Film Festival del 2014 e basato su un proprio cortometraggio omonimo (premiato due anni prima al “noor iranian film festival” come miglior corto). Bad city è la città cattiva (un probabile omaggio alla “Sin City” di Frank Miller) un non-luogo che disorienta lo spettatore lasciandolo sospeso nella simultaneità di due paesi Iran-Stati Uniti (nonostante il set sia nella californiana cittadina di Taft) le cui strade fantasma vengono popolate solamente al calar del sole da loschi individui. La nostra protagonista è una giovane donna (Sheila Vand, attrice in Argo di Ben Affleck) che veste all’occidentale sotto lo chador che indossa per uscire. Il suo è un ruolo dalle molteplici sfaccettature: da “angelo sterminatore” all’incarnazione della giustizia, passando per la versione underground di Carmilla che sulla soglia del crepuscolo si mette sulle tracce di cittadini borderline (tossici, prostitute e spacciatori). La condanna ed espiazione della loro dubbia morale coincide con il nutrirsi del loro sangue (decisamente poco salubre) per sopravvivere e rigenerare in qualche modo una società infetta. Tra amassi di ferraglia e desolazione urbana la spersonalizzazione dei sentimenti dei personaggi imprigionati nell’alienazione industriale viene amplificata dalla loro routine viziosa. Lo squarcio-divario tra vite ai margini di homeless e i palazzi dei vip rimane immobile in una circolarità atemporale: in tutto questo si muove leggera (spesso in skate) la dame sans merci dei nostri giorni per estirpare quel che c’è di marcio in Bad City e lasciare, dietro l’evanescenza dei suoi passi, una vaga idea di ordine. La giovane cineasta (classe‘80) d’origini iraniane, cresciuta tra Inghilterra e U.S.A evolve il suo stile (inaugurato con videoclip, documentari e corti) scegliendo il bianco e nero per narrare le avventure notturne della nostra vampira. Le inquadrature si allineano con un certo cinema indie d’autore (fra tutti Jim Jarmusch) ed una colonna sonora post-punk che sintetizza elementi medio-orientaleggianti con quelli occidentali. “A girl walks home alone at night” è una delle pellicole figlie del post-moderno che si avvale dell’universo citazionistico senza s-cadere nella parodia. La Amirpour strizza l’occhio alla nouvelle vague francese (nelle t-shirt a righe) e omaggia Morricone (in una scena on the road): un paio di esempi estrapolati dall’immaginario “melting pot” della regista. Attingendo così da varie dimensioni è possibile instaurare un continuum tra cinema (dall’espressionismo tedesco passando per surrealismo alla Lynch e un certo tocco pulp alla Tarantino) letteratura (gotica e fantastica, da Goethe a LeFanu ricordando anche Edgar Allan Poe e Stoker) ma anche linguaggi visivi (poster alle pareti, immagini che rimando all’universo dei comics e graphic novel). Nonostante si vedano alcune donne indossare il velo, non si tratta di un film di denuncia della condizione femminile: è più un aspetto della regista (che qui vediamo nel ruolo di Shirin) legato al suo patrimonio-genetico persiano influenzato dal mondo occidentale in cui poi è cresciuta. Alcune scene della pellicola virano all’ironia e al romanticismo: un modo per raccontare la vita dei due protagonisti che sanno essere solidali l’uno verso l’altro durante i loro incontri casuali che avvengono dopo un cercarsi senza saperlo. Rendez-vous che diventano intermezzo rarefatto tra i vari episodi ed in cui la percezione si dilata nel potenziale di due universi in collisione (meglio se sulle note diegetiche di un vinile, nello specifico mettendo su la canzone “Death” dei White Lies).

L’aspetto vampiresco di questa “ragazza che torna da sola a casa di notte” ha alle spalle non solamente una tradizione letteraria ma anche nella storia del cinema. Senza andare troppo indietro nei decenni, ricordiamo la decadenza della società post-industriale e la dipendenza da droghe (come in The addiction di Abel Ferrara) passando per la filosofia nella variante dei non vivi-divi maledetti (in Only lovers left alive” di Jim Jarmusch). La Amirpour punta anche al black-humor e grottesco (senza essere molesto) da cui si districa il tema del doppio: la dark-lady si trasforma in doppelganger quando sul lato opposto della strada si imbatte nel padre di Arash. La sua danza è quella di un ragno che si specchia nei movimenti dell’altro, riducendolo ad un’ombra avvinghiata alla sua tela. La duplicità si maschera anche con il gioco: come durante il convergere della storia in parallelo del protagonista maschile Arash (Arash Marandi) nelle vesti di un dracula “improvvisato” che reduce da una serata finita nel caos, si ritrova in uno stato allucinato in cui è normale scambiare i lampioni per lune oblique nel viale in prospettiva. Abbiamo già conosciuto Arash dall’incipit (“in posa” come un James Dean iraniano) che raccontava della sua auto vintage: un acquisto riscattato con i giorni di lavoro, pazientemente segnati come un carcerato che sogni la libertà. Una “tappa intermedia” che si concretizza nell’attesa di evadere da una situazione difficile (prendersi cura di un padre ridotto a tossicomane). Ai nostri non resta che calarsi nelle atmosfere da periferia e perdersi nel labirinto notturno. Una realtà urbana immortalata nelle scene in esterno dove la percezione dei protagonisti viene improvvisamente abbagliata dalla luce di una centrale elettrica. C’è chi (come il padre di Arash) “vede” la propria dipendenza nel fantasma del passato che lo perseguita e altri che convivono con incubi fusi a livello ottico e narrativo a cui assistiamo anche noi: i momenti di tensione si alternano con desideri fluttanti o scene sensuali improvvisamente dilaniate dalla visione dell’orrido. Il confine tra vita e morte, stati d’alterazione e dipendenza, inquietudini, fughe e impasse vengono riassunte nel vortice di immagini prefabbricate che si rincorrono per poi annullarsi nei momenti di stand-by. È questa l’essenza degli incontri tra Arash e la vampira: la possibilità di dare un senso alla matassa, fendendo la chiusura di un microcosmo ostile attraverso una profondità visiva (inquadratura di campo lungo) e di contenuto (trascorrendo del tempo insieme). Le paure e angosce collettive rimangono informi, limitandosi ad esistere negli abitanti de-umanizzati della “città cattiva”: indugiano gli aloni artificiali ed ombre prive di etica non appena svoltato l’angolo. Tale habitat di abbrutimento e degrado fa eco alle perversioni dell’intreccio corale: la solitudine, insieme al cercare che non soddifa, abbandona le pulsioni nel loro perenne stato di voracità. In mezzo ci sono Arash, da un lato, che rimane intontito nell’unicità della situazione, perdendosi al risveglio il nome della ragazza-vampiro e lei, dall’altra parte, ferma a guardare la collezione di gioielli rubati alle vittime senza sapere cosa farne. Laconicità, passi felpati, lobi bucati da spille da balia e un gatto-spettatore che assiste alla rappresentazione dei superstiti forse ancora in grado di rivolgere lo sguardo oltre la circolarità che li attanaglia.

Mariangela Martelli