Venezia74: Sweet Country, lirica della bestialità

Venezia74: Sweet Country, lirica della bestialità

September 7, 2017 0 By Angelo Armandi

sweet country venezia 74 poster

Sweet Country, film in Concorso alla 74esima edizione del Festival del Cinema di Venezia. Un western crepuscolare firmato Warwick Thornton, tra le pellicole più pregiate visionate al Lido. Ambientato nelle sterminate distese australiane degli Anni Venti, Sweet Country (che di dolce ha solo il sarcasmo racchiuso nel titolo) narra la storia, ispirata a fatti realmente accaduti, dell’omicidio di un proprietario terriero bianco ad opera dello schiavo nero Sam, per autodifesa a seguito di un’aggressione. Dopo una lunghissima fuga con la moglie, rimasta incinta dopo lo stupro perpetuato dallo stesso possidente, viene arrestato e processato.

Opera impregnata di lirica dolorosa, nel silenzio di un universo ancestrale, ostile, un reiterare di assenze brulle, imponenti, su cui gli esseri umani lottano per la faida della razza, che si articola su tre livelli: gli aborigeni australiani, gli schiavi neri che hanno smarrito la consapevolezza di essere uomini, plasmati nelle generazioni a ritenersi merce di scambio per i bianchi (al punto da tradire i compagni schiavi per servire i padroni), ed infine la civiltà dei bianchi, con la sua grassa ed impudente arroganza. Ad ogni livello si combatte, si afferma la propria autorità, si cade dinanzi al dominio del più forte. Sopra ogni cosa, permane l’implacabilità del territorio, la materia alla quale ci si ricongiunge, della quale temere le leggi, la cieca supremazia.

Il western consente di accedere visivamente alla rievocazione della schiavitù, brutale e al tempo stesso pervasa dalla calma innaturale, rassegnata de L’assassinio di Jesse James. L’attitudine alla barbarie; il conflitto culturale con un popolo sottomesso, costretto a rinunciare alla propria identità individuale e di popolo; un’idea di giustizia che si fonda sul più forte; il disprezzo per la legge e per i doveri che essa comporta, soprattutto in relazione allo sforzo di civiltà: nella pacatezza della forma, che non rinuncia al fascino sanguinolento della violenza, territorio carnale in cui si consuma l’identità del dominatore, in Sweet Country si supera il white burden e si approda al disprezzo viscerale, che è al tempo stesso untuoso e ferino.
In questo modello di inciviltà, in cui chiunque spadroneggia non appena si presenta l’occasione (dagli aborigeni stupratori, al giovane schiavo Philomac, al vecchio schiavo nero codardo, al sergente bianco che è un manuale di crudeltà declinata nelle varie forme), svetta la civiltà dello schiavo Sam, esempio di sagacia e di virtù.

Dalla pietà, alla volontà dello scontro alla pari, alla protezione per la donna: Sam rincorre il suo destino senza dubitare di ciò che sia giusto, animato da una forma di spiritualità cristiana, pur consapevole della necessità di ricorrere alla violenza per l’autoconservazione-sopravvivenza, laddove la pressione del darwinismo costringe gli umani ad agire come bestie e ad identificarsi nell’anima selvaggia ed ammonitrice della natura attorno.
Sweet Country è, a conti fatti, una parabola di umanità in un Mondo che rifiuta di essere salvato. 

sweet country venezia 74

Angelo Armandi