The Motel Life, un posto in cui rifugiarsi

The Motel Life, un posto in cui rifugiarsi

October 24, 2017 0 By Mariangela Martelli

“La sfortuna si abbatte sulla gente ogni giorno. È una delle poche certezze nella vita. È sempre pronta, sempre lì, in attesa”.

The motel life è l’opera con cui Alan e Gabe Polsky, nel 2012, sono passati dal ruolo di produttori indipendenti a quello di registi. La storia, che vede come protagonisti i due fratelli Flannigan, è tratta dal romanzo omonimo con cui Willy Vlautin ha esordito nel 2006 (autore anche di Lean on Pete, la cui trasposizione cinematografica è stata presentata al recente Festival di Venezia).

I Polsky-bros, rimasti incantati dal libro “The motel life”, ne hanno realizzano una trasposizione fedele in immagini su grande schermo grazie al lavoro a quattro mani per la sceneggiatura (Noah Harpster e MicahFitzerman-Blue) premiata (anche con il premio del pubblico) alla Festa del Cinema di Roma del 2012. Il tema centrale che lega i due fratelli protagonisti è quello di dare forma e voce alle propria immaginazione. Nonostante la diversità di carattere e modo di approcciarsi agli eventi, Frank Lee (Emile Hirsch, “Into the wild”) e Jerry Lee (Stephen Dorff, “Somewhere”) riescono a sincronizzare la vocazione del “cantastorie” del primo con le illustrazioni create dal secondo. Storyboard che “prende vita” in varie sequenze del film, mostrandoci in modo concreto ciò che sta alla base della loro fantasia: una fusione post-moderna fatta di fantasmi del passato e bisogno di evasione da una realtà difficile.

La visione cruda del presente narrativo è densa di violenza e sesso: sfondo su cui si muovono sia personaggi inventati (come gli eroi dell’infanzia) come familiari, amici, fidanzate che non ci sono più. Ci troviamo a Reno, Nevada (città natale di Vlautin) ai giorni nostri. La “più grande piccola città del mondo” famosa per la sua vita notturna fatta di casinò è ripresa in “The motel life” da un altro punto di vista. Le luci sfavillanti perdono la loro intensità per sintonizzarsi con la vita “ai margini” dei Flannigan, in periferia. Nel bel mezzo della notte Frank viene svegliato dal fratello Jerry, piombato nell’appartamento visibilmente agitato e con indosso solamente un impermeabile, mentre fuori scende la neve. Pochi istanti in velocità ci fanno intuire che i due devono fuggire: le spiegazioni verranno dopo, durante la confessione in macchina. Jerry si sfoga, dice di “essere caduto in basso”: dopo un litigio con la ragazza si è messo al volante ubriaco ed ha investivo involontariamente un ragazzino in bicicletta, causandone la morte. Le tracce nascoste e depistate in un primo momento diventarenno il tormento che nei giorni seguenti non abbandonerà il responsabile: la situazione di stallo getta Jerry nello sconforto più profondo. Con il pensiero fisso su ciò che è successo decide di auto-punirsi, cercando di alleviare il dolore dell’animo infierendosene uno fisico: lo spettatore sente solamente lo sparo mentre la soggettiva mostra lo scorrere del fiume. Jerry raggiunge parzialmente lo scopo perché si ritroverà piantonato in ospedale con la polizia in visita per interrogarlo. La maggior parte delle scene è stata realizzata seguendo gli attori con la camera a mano, che ruota libera intorno a loro o li precede nei movimenti. Lo sguardo della macchina da presa non si stacca neanche quando Frank si recherà al casinò “per tentare la fortuna”: il piano sequenza, con i suoi tempi vicini alla realtà, riesce a concretizzare il suo fluttuare in uno spazio troppo ampio. Sarà il silenzio a colmare la distanza che separa i protagonisti dagli ambienti interni ed esterni, sebbene spesso venga interrotto dal rumore di un autobus che passa, dal disperdersi delle sirene della polizia o dall’incedere claudicante di Jerry. La sua gamba malandata è un peso e una mancanza che si trascina incerto sull’asfalto coperto di nevischio, la necessità di espiare una colpa è la costante che perseguita il personaggio nello svolgersi dell’intreccio.

La fotografia vira dai toni del grigio a quelli del blu, una tavolozza fredda fatta di ghiaccio, rocce e alberi spogli che riesce a fondersi in un effetto realistico ed a contornare il contesto in cui i due protagonisti si muovono. L’effetto cromatico riesce a dare espressione anche alla loro interiorità: il rosso della deflagrazione dell’auto a cui Jerry ricorrerà per “depistare le tracce” è il marchio sanguigno di cui si è macchiato, mentre la necessità di redimersi si riflette nel bianco della radura che lo circonda.

La solitudine che accompagna gli esterni ostili alla “Into the wild” non prende mai il sopravvento: i Flannigan non si piangono addosso ma conservano la loro dignità, sebbene spesso sia messa a dura prova. Consapevoli di essere ammantati da un inverno perenne è nel calore umano, impalpabile come il vapore condensato sui finestrini dell’auto, in cui cercano una tregua. Il vincolo del legame fraterno ne esce rafforzato, nella complicità di essere ancora una volta “sulla stessa barca”. La luce trasversale di certe scene è di una bellezza struggente e vera: scalfisce la vita dei protagonisti, fatta di dolore e tenerezza. Un parallelo di forme e contenuti con pellicole come “Manchester by the sea” (Kenneth Lonegan) e “Ritorno alla vita”(Wim Wenders) è inevitabile. “The motel life” è una storia di formazione, redenzione e riscatto in una struttura che si sviluppa “on the road”. Il topos della fuga è accompagnato dai flashback che svelano il vissuto dei due fratelli: dalla loro adolescenza segnata dalla morte della madre e da un padre assente, al loro riuscire a cavarsela da soli, passando per l’incidente in cui Jerry ha perso la gamba ed i lavoretti per sopravvivere. Sarà l’arte a riempire questi vuoti e ad allontanare il disagio: la condivisione di un’ esistenza nuda e cruda diventa creazione di un mondo-altro in cui nascondersi. I disegni e gli schizzi che vediamo sono gli stessi che nel romanzo contornano l’incipit di ogni capitolo e che nel film ritroviamo nei cartelli pubblicitari e nei titoli di coda.

Anche i personaggi femminili svolgono un importante ruolo salvifico: dal ricordo della madre all’ex fidanzata di Frank Annie James (Dakota Fanning). Come Jerry, anche Annie ha ascoltato le storie di Frank per evadere mentalmente da una serie di problemi familiari in cui si è ritrovata coinvolta. Alle disavventure dei due si intrecciano alcuni riferimenti ad altri linguaggi artistici: dalla citazione meta-cinematografica (la tv in motel trasmette “Sentieri selvaggi” di John Ford) alla letteratura americana. Ciò che emerge maggiormente non è una vicenda di frontiera, bensì umana, fatta di solidarietà (come “Uomini e topi” di John Steinbeck) e solitudine (“alla Carver”) rischiarata da quella luce inconfondibile dei dipinti di Edward Hopper. Inoltre, è il cantautorato americano ad accompagnare la colonna sonora: da Bob Dylan e Johnny Cash (“Girl from the North Country”) ad un brano dei “Richmond Fontaine” (di cui Vlautin è stato leader fino al 2016). Il personaggio del “boss-concessionario di auto” presso il quale Frank lavorava è interpretato dal cantante country e attore: Kris Kristofferson. L’uomo che è stato “un punto di riferimento” al Frank adolescente non verrà dimenticato. Il loro affetto emerge anche quando il Frank del presente lo andrà a trovare (dopo anni) per farsi consigliare riguardo una possibilità di riscatto capitata all’improvviso: si tratta di una somma considerevole vinta con l’amico Tommy (Joshua Leonard) ad un incontro di pugilato. Il mondo delle scommesse e gioco d’azzardo unisce “The motel life” con la recente pellicola “Lean on Pete” (incentrata sulle corse dei cavalli).

I disegni sul muro sono gli spettri di un passato che continua a proiettare ombre davanti ai passi dei fratelli. L’immagine di Frank, riassunta nella struttura a cerchio della pellicola, racchiude anche il prendersi cura del fratello minore: non solo nel raccontargli storie all’ospedale o quando non riesce a dormire (per esorcizzare le proprie paure e rielaborare gli eventi drammatici che li hanno colpiti) ma anche nei piccoli gesti come lavarlo o cambiargli le bende. Se la voce narrante nel libro è quella di Frank, su grande schermo i pensieri si fanno da parte per lasciare spazio all’oggettività. È attraverso i flashback che conosciamo le esperienze e relazioni che hanno vissuto i personaggi, facendoli diventare ciò che sono e scoprendo poco alla volta cosa ci sia alla base delle loro scelte. Nessun giudizio viene espresso, come farà Annie dopo aver saputo la verità.

La ragazza e Frank si ritrovano, nella tappa della fuga (che non a caso) li ha condotti a Elko: città in cui la giovane si è rifatta una vita partendo da zero,  avendo il coraggio di affrancarsi da una situazione familiare complicata. L’ idea di normalità è il desiderio che da sempre accompagna i protagonisti e che diventa luce negli occhi di Jerry quando il fratello gli dice di aver preso un cane o che leggiamo nelle pagine bianche di un taccuino da disegno.  La fuga rallenta, si mettono radici in un luogo in cui rifugiarsi e respirare: in equilibrio tra qualcosa di possibile e l’imprevedibilità della vita che mette in discussione la capacità di adattamento dei personaggi.

 Vorrei che fosse tutto vero, più di ogni altra cosa al mondo” disse lei. “é tutto vero, solo che non è ancora successo”. 

 

Mariangela Martelli