
I, Daniel Blake di Ken Loach: una Palma d’Oro proletaria
February 22, 2018Attese, telefonate, rinvii, richieste on line, perizie, curricula, workshop e via di nuovo, in un circolo senza fine. Daniel non può lavorare perché il cuore fa le bizze, ma allo stesso tempo non può ricevere l’infermità che gli spetterebbe poiché ritenuto abile a sufficienza. Parallelamente ha l’obbligo di far circolare il proprio curriculum nella speranza di ottenere il sussidio di disoccupazione, ma qualora dovesse essere assunto farebbe bene a rifiutare, visti gli allarmati consigli del medico curante. È il cortocircuito del mostro burocratico che, unito alla cecità del mercato del lavoro, relega Daniel in un tale purgatorio, un limbo che ne abbatte la dignità e le forze fisiche, costringendolo ad una folle alternanza di rimandi e richieste negate. Sarà l’incontro con Daisy, giovane madre disoccupata, a innescare una relazione di solidarietà reciproca tanto fortificante quanto disillusa.
Premiato con la Palma D’oro nel 2016, I, Daniel Blake porta nella patinata Cannes tutti i rumori e la fatica del cantiere tanto caro a Ken Loach, che se ne La parte degli angeli tematizzava il materiale tragico grazie alla commedia amara, qui indirizza la pellicola verso un realismo che paradossalmente diviene puramente grottesco, e la sequenza sui titoli di testa ne è solo la prima delle prove in ordine di apparizione: il dialogo off screen tra Daniel e la “professionista della sanità” incaricata di visitarlo assume infatti in pochi secondi i toni del buffo e del ridicolo piuttosto che del funereo che invece dovrebbe caratterizzarlo (“Possiamo parlare del mio cuore? Lasci perdere il mio culo, quello lavora alla perfezione”).
Ecco che il pietismo – sempre in agguato quando il sociale si fa oggetto cinematografico – riesce, al netto di qualche lacrimuccia di troppo, ad essere respinto da un Ken Loach ben più interessato alle tribolazioni tragicomiche del suo Quarto Stato che al piagnisteo ricattatorio che da queste premesse potrebbe emergere. Sono allora le contraddizioni del liberismo ad essere sapientemente fatte affiorare anche per mezzo di semplici battute messe in bocca ai figuranti: “tanto vi troverete anche voi senza lavoro, vi privatizzano!”, urla beffardo un senzatetto ai poliziotti che portano Daniel in centrale, reo di aver dato sfogo alla propria insofferenza con la bomboletta spray sul muro. Ne risulta un impietoso Davide contro Golia in cui la comunità degli esclusi ha la forza di compattarsi soltanto in rari momenti, mentre il gigante istituzionale tira dritto in barba al buon senso.
Le dissolvenze a nero intervallano quindi i tentativi del protagonista di orientarsi nell’intricata ricerca di un impiego – peraltro sempre più caratterizzata da un linguaggio informatico ridicolo e a lui pressoché sconosciuto – e di aiutare Daisy e i suoi bambini, cacciati da Londra e ora salvati dalla “banca del cibo”, che offre loro la spesa e allo spettatore la scena più toccante dell’intera pellicola. Ma se i vicini di casa sotto-pagati si arrangiano come possono vendendo scarpe agli angoli delle strade e Daisy resta a galla accettando il peggiore e più antico dei lavori, Daniel rimane immobile, incastrato tra l’età che avanza, la salute ballerina e delle competenze che non può più acquisire. Il finale sarà allora inevitabile, con una lettera che catalizza su di sé tutto il cuore della sceneggiatura di Laverty, storico collaboratore del regista, capace ora di far sorridere con amarezza, ora di mostrare l’usuale carattere di denuncia che ne caratterizza la filmografia.
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