
La Napoli Velata di Ferzan Özpetek, ingannatrice e rivelatrice
March 22, 2018Il regista turco, naturalizzato italiano, Ferzan Özpetek ci consegna il suo ultimo lavoro cinematografico: Napoli Velata (2017), che, assieme ad Ammore e Malavita dei Manetti Bros. e Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli, ha dominato l’ultima edizione dei David di Donatello. Adriana (Giovanna Mezzogiorno), medico legale, conosce Andrea (Alessandro Borghi) durante una festa. I due trascorrono una notte assieme; quella che sembra la nascita di una impetuosa passione sarà troncata dall’inaspettata uccisione del giovane in circostanze assai misteriose. Adriana è così travolta in un vortice di disperazione, fino a quando per strada non incrocerà un ragazzo del tutto identico ad Andrea, che si scoprirà esserne il fratello gemello.
Il film si apre con un movimento di macchina avvolgente che determina quasi una vertigine visiva. Lo spettatore si trova spaesato di fronte a questo vortice, seguito dal successivo omicidio, la scena di sesso e, infine, la “figliata dei femminielli”, elementi che non fanno altro che incrementare una perdita di riferimenti. Napoli Velata è un film che, del resto, gioca tutto sull’ambivalenza. Il vedere e il non vedere diventano la cifra stilistica del film: davanti a un oggetto ve n’è un altro, così come di fronte a un significato ve n’è un altro ancora. Tutto il film appare come una serie infinita di tableau vivant che, fin dal principio, si susseguono; vediamo infatti, attraverso un velo steso tra la macchina da presa e la scena: si preferisce non vedere, per nascondere simbolicamente ciò che si intende rivelare.
La realtà è impalpabile o velata, che dir si voglia. Il film invero si apre con un’inquadratura roteante che pare un occhio, fino a quando il suo stesso movimento ne nega la natura. Il tema dell’occhio è chiaramente esplicitato tramite il personaggio di Adriana e nello scambio di sguardi che ha con Andrea durante la festa. Lo stesso desiderio della donna di guardare l’amante durante l’amplesso, o ancora osservare il suo corpo nudo nelle fotografie scattatele dal giovane a sua insaputa, sono elementi che sottolineano la messa in discussione dello sguardo.
Adriana da soggetto attivo, colei che guarda, diventa soggetto passivo colei che è guardata. Questo passaggio lo si evince dai primi piani che ne catturano l’interiorità, il riprenderla nell’atto di salire e scendere le scale – nell’appartamento della madre o nel museo archeologico – diventano testimoni di una volontà di studiarne i cambiamenti umorali. Il tema dell’occhio è sottolineato, ancora una volta, dal regalo che Adriana fa a Luca che è dichiarazione e richiesta, da parte della donna, di essere guardata per essere così protetta e amata.
L’altra protagonista del film è Napoli. Da sempre la città partenopea è il luogo per eccellenza dell’ambivalenza: religiosità e ritualismo pagano, palazzi antichi e architetture moderne, razionalità e superstizione. La messa in scena teatrale predominata, prevalentemente, da spazi chiusi in cui si stagliano palcoscenici fittizi – il rito del “parto dei femminielli”, la terrazza della casa di riposo con il “parto” della smorfia napoletana, per arrivare al letto di questa moderna sibilla nella storica Farmacia degli Incurabili che predice il futuro – fanno di Napoli luogo finzionale in cui il susseguirsi di specchi ed i loro riflessi ne scaturiscono una perdita di qualsiasi contatto con la verità. Il film, inframezzato da recite che amplificano e creano ambiguità: squarci di verità per poi nuovamente tornare a essere ombra. Giochi di tende che si aprono e si chiudono, svelano e rivelano mondi misteriosi.
Tantissimi gli occhi che guardano ma che non possono vedere (come i non vedenti alla fine del film che percorrono le strade di Napoli), occhi che ritornano anche come oggetto feticcio (il portafortuna che Adriana regala a Luca) un susseguirsi di ricercate suggestioni sopraffini, in una Napoli ora barocca ora sguaiata in un film che è thriller, ma anche melodramma. Ed forse in questo vortice visivo e narrativo che il regista inciampa, perché c’è da aggiungere che Napoli Velata non è un prodotto perfetto soprattutto a livello di scrittura: la trama è thriller, talvolta noir, ma anche melò così come i personaggi risentono di una caratterizzazione eccessiva. Tuttavia i “difetti”, se proprio bisogna chiamarli tali, sono marginali rispetto a un prodotto che è capace di creare una suggestione evocativa assai rara.
Ferzan Özpetek allontanandosi dai soliti toni della filmografia precedente non perdendone tuttavia il sapore sceglie, coraggiosamente, di percorrere nuove strade. Grazie a un nuovo sguardo dichiarato fin dall’inizio: “la verità va sentita, più che guardata chiaramente e razionalmente”. L’inedito occhio di Özpetek diviene così l’occhio dell’adepto colui che segue un’indagine approdando al mistero e a un non-risolto che è, però, risolutivo: l’elemento del mistero e dell’occulto possono essere, paradossalmente, conoscitivi anch’essi. Il nuovo sguardo del regista sembra direzionarsi verso un cinema che è ingannatore più che svelatore; ma che alla fine tradendo, vela e diviene rivelatore.
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