
The Killing of a Sacred Deer, il film più kubrickiano di Lanthimos
April 3, 2018Premiato nel 2017 a Cannes ex equo con You Were Never Really Here di Lynne Ramsay, The Killing of a Sacred Deer è il disarmante ritratto familiare che Yorgos Lanthimos dipinge di una borghesia allo sbando, sempre più marcescente, rinchiusa dentro la gabbia dorata del benessere e cieca di fronte alla moralità. Nella bolla all’apparenza infrangibile costruita dai coniugi Steven e Anna Murphy (Colin Farrell e Nicole Kidman, protagonisti entrambi del The Beguiled di Sofia Coppola), la vita scorre senza grossi problemi assieme ai due amati figli fino a quando l’orfano Martin (Barry Keoghan, Dunkirk) fa breccia nelle loro esistenze. Verranno prese misure estreme per difendere i propri cari.
Il regista greco, già autore di quel The Lobster che tanto ha saputo far parlare di sé, realizza il suo film più accessibile e digeribile (sia chiaro, questo non vuol dire che lo spettatore medio possa riuscire a sopportarne la visione), il più “americano” non solo per l’ambientazione statunitense a far da cornice geografica alla vicende, ma per la costruzione narrativa stessa, e anche il più kubrickiano. Sì, perché se è innegabile l’influenza del realizzatore di 2001: Odissea nello Spazio su pressoché tutti i registi degli ultimi cinquant’anni (nota a margine dettata dall’attualità: straordinario l’omaggio che Spielberg ha fatto al suo amico inserendo e rielaborando The Shining nel recentissimo Ready Player One), è la prima volta che se ne riscontra tanta virulenza nel cinema di Lanthimos, che all’attivo ha già cinque lungometraggi oltre a The Killing of a Sacred Deer e uno nuovo in arrivo (The Favourite, attesissimo drammone storico ambientato nell’Inghilterra del XVIII° secolo con Rachel Weisz ed Emma Stone).
L’evocato spirito di Stanley Kubrick aleggia per tutto The Killing of a Sacred Deer, dal rapporto tra i due sposi che ricorda quello della coppia Harford in Eyes Wide Shut (e Nicole Kidman ne era co-protagonista) fino alla professione stessa dei personaggi di Colin Farrell / Tom Cruise, entrambi medici nei film. E poi, l’uso delle steadycam ad accompagnare le lunghe camminate eterne all’interno dei corridoi ospedalieri o l’impiego di una colonna sonora che “riempie” le inquadrature, le sovrasta con temi musicali claustrofobici (The Shining). Il culmine di questo apparente revival di elementi presenti in Kubrick si ha durante le scene ambientate nel seminterrato dei Murphy: il fucile (Full Metal Jacket), il biliardo (Eyes Wide Shut), il bersaglio e le freccette (The Shining).
Citazioni che non sono mai citazioni e neanche omaggi, piuttosto prestiti. Casuali o meno, inconsci o razionalmente voluti. Un gioco di rimandi con cui Lanthimos finisce per ripescare anche dai suoi stessi film: le strutture sanitarie e la fissazione con gli spaghetti già presenti in Alps, per non parlare del tema della cecità presente in Kynodontas e già riutilizzato in The Lobster. È quel che rende grandi gli autori, il riutilizzo di tópoi personalissimi da una pellicola all’altra (David Cronenberg, Sion Sono, Woody Allen, solo per citarne alcuni).
Il cinema di Lanthimos ha indubbiamente a che fare con disfunzioni corporee: cecità, paralisi, malformazioni. È un’ossessione che dall’ambiente greco ha travasato anche in questo suo primo film americano. Tuttavia, mai come da The Killing of a Sacred Deer emergono un’ideale corrotto di giustizia e un modello di nucleo familiare più simile a quello bestiale che a quello umano. Da un lato, l’antica ottica della lex talionis (occhio per occhio, dente per dente, sulla scia di Un borghese piccolo piccolo), dall’altro invece il sacrificio di un figlio perché ne si può sempre mettere un altro al mondo. In entrambi i casi, il non lucido adoperare della ragione da parte di personaggi il cui contesto sociale e la cui educazione spingerebbero a pensare il contrario. Come dire, dalla scienza alla clava il ritorno è un attimo.
E paro paro in Kynodontas, i membri della famiglia si controllano a vicenda (“Dov’eri?”, “Cos’hai fatto?”, “Com’è andata?”, …). Sì, la prigione se la portano appresso ovunque vadano, non sono più confinati in casa, ma dentro le mura domestiche compiono atti innaturali sotto anestesie e rigurgitano parole di sesso. Nello specifico, torna per tre volte il tema delle mestruazioni legato alla giovane Kim. Se un maschio è sacrificabile perché può procreare fino a tarda età, non si può dire lo stesso sulla durata del periodo di fecondità femminile. Pertanto, l’arrivo del menarca è accolto con gioia dal padre. Vuol dire che sua figlia può rimanere incinta. Nella ribaltata visione parentale del cinema di Lanthimos, vuol dire che lui stesso può metterla incinta. Il film ci risparmia l’incesto, ma non la sua idea trasmessa da quelle scomode inquadrature di ragazza e genitore sul letto. I film del regista non è che si stiano facendo meno malati, solo che adesso tutto lo schifo immorale passa sotto le cute, attraversa gli organi, non si vede quasi, ma si può quasi sentirne l’odore.
- Le palle d’acciaio di The Caine Mutiny Court-Martial - September 11, 2023
- Appunti sparsi su Crimini e misfatti - September 8, 2023
- Quell’unica volta in cui Douglas Sirk si diede al genere western - August 29, 2023