
Cinque clamorose locandine cinematografiche giapponesi
April 7, 2018Sulla scia, ma poi neanche tanto, dello speciale riservato a The Handmaiden / The Exorcist / Venus in Fur, questo articolo vuole semplicemente mostrare quanta differenza spesso intercorra tra i poster cinematografici originali e la loro versione in altri paesi. In questo specifico caso, i distributori di film in Giappone hanno dimostrato in più d’una occasione di sapere fare veramente il loro mestiere. Son state selezionate cinque locandine davvero notevoli di altrettanti grandi pellicole.
Gli uccelli (The Birds, Alfred Hitchcock, 1963)
Minimale, ma tremendamente suggestivo il poster giapponese di quello che da molti critici e cinefili è considerato l’ultimo vero grande film del maestro della suspense. Tipico della tradizione nipponica, tutto il “superfluo” è stato eliminato: non c’è più il faccione di Hitchcock, neppure il bel volto di Tippi Hedren. Sono rimasti solo quattro uccelli disegnati (alcuni dei quali, notando con attenzione somiglianze e differenze, presi direttamente dalla locandina americana) e tanto basta.
Tolti i grigi e il nero, pure i colori sono stati messi da parte. C’è solo più il rosso del titolo del film che si staglia al centro come una macchia di sangue su foglio bianco. Caso vuole che ricordi anche la bandiera della nazione. Sembra quasi lo stile di una stampa ottocentesca, un po’ lo è, ma rievoca soprattutto i titoli di testa del film con tutte quelle ombre di volatili che si spostano da un lato all’altro dello schermo con movimenti e versi minacciosi. Sintesi perfetta di contenuto e forma.
Il corvo è l’uccello del malaugurio secondo la tradizione popolare. Nel film di Hitchcock non è solo il presagio di una fine che sta per sopraggiungere, è la morte stessa, scesa dal cielo in corpi fatti di ossa cave, becchi appuntiti e piume nerissime per punire la razza umana, vendicarsi. La storia del cinema è costellata da immagini di corvi, volendo rimanere in Giappone basti ricordare L’autunno della famiglia Kohayagawa (1961, penultimo film di Yasujiro Ozu) e l’inquadratura con la fumante ciminiera del crematorio e un gruppo di corvi scuri come la pece che bevono e si lavano nel fiume sottostante.
Shame (id, Steve McQueen, 2011)
Sesso. Ecco il termine con cui è stato riassunto il film con Michael Fassbender. Indubbiamente le vicende ruotano attorno ad esso, ma Shame è quasi all’unanimità considerato un gran film anche perché c’è ben altro oltre la riproposizione ossessiva di rapporti carnali.
Nella stragrande maggioranza dei poster è raffigurato il protagonista a letto senza nessuno al suo fianco. In alcuni lo si vede per intero, sempre con un lenzuolo a coprire i gioielli di famiglia, in altri si vede solo la mano a controllare che tutto sia al suo posto. Nella sua semplicità, catalizza subito l’attenzione e prende all’amo lo spettatore medio, sì, anche quello che vede un film al mese. Shame però è il ritratto di anime in pena, desiderose di morire, confuse, frastornate, sperdute, incapaci di essere felici. Lo è Brandon, ma lo è anche sua sorella Sissy.
Il rapporto tra i due è complesso, c’è affetto e al contempo ci sono anche ferite non rimarginabili. È la distanza il fattore che non posso accorciare, quello che impedisce loro di dimenticare gli errori fatti, d’impegnarsi a non farne di nuovi, di proteggersi le spalle a vicenda a ogni costo. Lui fugge, lei si distrugge. Shame non si risolve nello squilibrio di queste due persone così simili (stessi geni) e così lontane, ma è l’indubbio perno attorno cui ruota un impossibile cambiamento. La locandina giapponese supera la sfera sessuale e si concentra su quella umana. Sissy è un fantasma nel muro che poggia la testa su quella del fratello. Lui è un essere vivente di carne (lo strumento per entrare in contatto con le donne è l’utilizzo che fa del suo muscolo preferito), lei è evanescente come uno spirito. L’incontro tra le due parti non può essere che effimero e non destinato a durare più a lungo dell’intervallo tra un litigio e quello dopo.
eXistenZ (id, David Cronenberg, 1999)
Tra i tanti film purtroppo sottovalutati e anche un po’ dimenticati di David Cronenberg, Existenz si ritaglia un posto d’onore per essere uscito nelle sale storicamente in un momento sbagliatissimo perché troppo avanti per i tempi o semplicemente troppo “vecchio” per quel pubblico che nello stesso periodo riempiva le sale per il primo Matrix. Il problema è che al regista canadese la realtà virtuale (QUI, un approfondimento sul tema) interessava solo nella misura in cui potesse applicarne gli effetti su personaggi in carne e ossa, non su ologrammi. Gli spettatori, invece, della cerebralità della pellicola cronenberghiana non hanno saputo che farsene né ai tempi né oggi: c’è troppo da pensare, meglio (a detta loro) l’intrattenimento spettacolare veicolato da una buona storyline come nel recente Ready Player One.
Consapevoli del flop imminente, i distributori (tra cui la Miramax del criminale Harvey Weinstein) optarono per un poster quanto più accattivante. Ovviamente la scelta si rivelò inutile e il film andò male al botteghino, ennesimo caso nella lista dei fallimenti commerciali / successi artistici di David Cronenberg. Nel tremendo poster internazionale si vede Jude Law tenere in mano una pistola stile cotoletta di pollo KFC con appiccicata addosso Jennifer Jason Leigh in quello che è un fotomontaggio più mostruoso delle creature de Il pasto nudo. Un elaborato grafico abominevole e senza possibili giustificazioni e neanche scusanti. Poi si va vedere la locandina per la release giapponese e ci si rimette al mondo.
Nella versione per il Giappone si sfiora il miracolo: i protagonisti sono malamente sdraiati a letto come due tossici (e del videogame lo sono eccome!) attaccati al supporto ludico-embrionale che permette loro di accedere alla dimensione virtuale dove si ritrovano. Tutte attorno ci sono mani che sembrano tenere joystick o fili invisibili rendendo chiaro uno dei leitmotiv di Existenz, ossia il gioco dentro il gioco, le infinite scatole cinesi che racchiudono realtà e virtualità in loop senza via di fuga. In due parole: poster perfetto.
La grande abbuffata (id, Marco Ferreri, 1973)
L’Italia è brava a farsi bagnare il naso dal mondo intero. Nonostante una storia nazionale senza eguali e una tradizione culturale ramificata fin dentro le viscere di questo pianeta, la censura ha punito sempre le menti più eversive, le ha fatte tacere, le ha messe all’angolo. Marco Ferreri, come Pasolini e altri, ha subito le critiche negative di una stampa bacchettona e di un pubblico che solo in parte l’ha seguito veramente fino in fondo. In quest’ottica, anche La grande abbuffata è finito sotto la tagliente lama censoria. Son state operate amputazioni riguardanti quelle scene troppo scomode per poter essere portate nelle sale: masturbazioni, scopate, volgarità. Tutto (o quasi) fortunatamente ricucito e finalmente mostrato nelle più recenti edizioni home-video.
Ovviamente, anche la locandina italiana è figlia di quei tempi. Decisamente insufficiente sul piano del rendere giustizia all’opera ferreriana, essa mostra i quattro protagonisti in un tale mood goliardico da far sembrare La grande abbuffata una commedia come tante, ‘na roba da ride. Chi conosce il film, sa che così non è: le gustose risate sono contornate di un’amarezza funerea. Paradossalmente, il poster giapponese non solo è decisamente più elegante e graficamente più appagante, ma rende molto meglio l’idea dell’ingordigia che ancor prima essere dei personaggi è fattore filmico: un’orgia d’immagini di carne.
Tralasciando il fatto che Philippe Noiret sia scomparso dai fotogrammi utilizzati, il collage jappo mostra: un Mastroianni con fascia da pirata sull’occhio (in realtà, un paio di slip femminili usati. Qui Ferreri sublima il von Stroheim di Queen Kelly) intento a imitare il regista Raoul Walsh, per l’appunto cieco da un occhio dopo un incidente; un Piccoli in golfino rosa con decapitata testa di porco tra le mani; un altro Mastroianni impegnato in uno sfondamento su Bugatti d’epoca (quella blu, quella rossa non c’è nel film ed è semplice variazione cromatica per la locandina); un minuscolo Tognazzi a tavola; donne discinte e denudate; e soprattutto la casa, spettrale quasi quanto quella di Psycho con annesso Eden concettualmente ribaltato (un Paradiso-Inferno sulla terra, ecco). La cornice attorno racchiude tutto come una bara con tanto di decorazioni floreali per i defunti. Per farla breve, non c’è neanche paragone con la povertà del manifesto italiano.
L’arte di vincere (Moneyball, Bennett Miller, 2011)
Forse non tutti sanno che i giapponesi vanno pazzi per il baseball. Dopo gli americani, non c’è altro popolo più interessato di loro a questo sport di cui esiste persino un campionato seguito da pressoché tutti (l’equivalente del calcio in Italia, per capirsi). Questa passione la si nota, per esempio, nei film di Yasujiro Ozu e Hirokazu Kore’eda, ma anche in manga, romanzi. Non stupisce quindi che Moneyball abbia avuto in Giappone una première da fare invidia a quelle di Los Angeles o Londra. Tappeto rosso, Brad Pitt mano nella mano dell’ex (?) moglie Angelina Jolie, flash e autografi. Entusiasmo non dettato dalla mondanità di vedere due divi di Hollywood, ma eccitamento per una pellicola sul baseball.
Senza entrare, almeno in questa sede, nei dettagli di quello che è uno dei più bei film americani dell’ultima decade, confrontando la locandina americana con quella giapponese verranno alla luce curiose differenze nonostante l’impianto grafico sia pressoché il medesimo. Brad Pitt è seduto in tribuna, mezzo voltato verso lo spettatore, solo. Sì, solo. Nei posti a sedere di fianco a lui non c’è nessuno, come nell’incipit del film. Se la solitudine è uno degli elementi imprescindibili dalla trama di Moneyball, va anche detto che non è una condizione vissuta tristemente. Al contrario.
Nella versione (re)made in Japan, Brad è un po’ più biondo, la pelle è rischiarata dal lens flare sparato sulla sua schiena, ma la sua figura è rimasta immutata. Quel che è cambiato è tutto il contesto circostante: lo stadio è popolato di tifosi festanti e del verde campo da gioco non è rimasta che una striscia sottile sottile. Il cielo è limpido, una visibilmente bella giornata dominata qua e là da qualche nuvola, ma non è tutto qui. Compaiono costellazioni numeriche, simboli, formule matematiche, cioè il fondamento su cui si basa la storia (vera) narrata. “Lo chiamano Moneyball”, dice uno dei telecronisti, ed è un insieme di sistemi algebrici volti a formare una squadra di “giocattoli difettosi” (tradotto: giocatori bravi, ma che nessuno vuole per svariatissimi motivi) in grado di vincere. Un po’ pop, probabilmente troppo allegra per lo spirito generale del film, la locandina nipponica congloba quel che la controparte americana non riesce: il baseball e l’individualità assieme ai numeri.
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