
Che cos’è il genio? Kubrick e i cinquant’anni di 2001: Odissea nello spazio
June 4, 2018Anzitutto vorrei specificare che questo articolo è frutto di una committenza, non di una iniziativa personale. Lunedì 4 giugno torna al cinema, in forma smagliante, il capolavoro di Stanley Kubrick 2001: Odissea nello spazio. Accorra al cinema chi idolatra il film e anche chi il film non l’ha mai visto.
Di mia spontanea volontà non avrei mai scritto nulla su 2001: Odissea nello spazio, perché si tratta di una “patata bollente”, e a meno che non si faccia parte di quel gruppo di fan osannanti, il film è difficile da guardare, da recensire e da “trasmettere” anche al lettore più attento. Come si può (ancora) scrivere qualcosa di intelligente su di esso? Per restringere il campo ed evitare una sbrodolata sulla grandezza di 2001 o sui significati reconditi dell’opera – come ce ne sono migliaia, nel magico mondo del web – s’è deciso assieme ai direttori di parlare dell’influenza che il film ha avuto nel tempo e in particolare oggi, a cinquant’anni dalla sua uscita. Mi sembra un buon compromesso per arrivare alle 1000 parole assegnatemi senza però annoiare i lettori.
Dunque. Nel 2007 Ridley Scott si lasciò sfuggire, mentre era a Venezia a presentare il final cut di Blade Runner, che 2001: Odissea nello spazio è “il” film da battere, nel senso che un film simile “uccide” il genere fantascientifico in campo cinematografico. Rincara la dose Michel Ciment, secondo il quale “Kubrick ha concepito un film che in un colpo solo ha reso obsoleto l’intero cinema di fantascienza”.
Tutto ciò è verissimo. Prova ne sia che l’intero gruppo di film di fantascienza, sottocategoria viaggi interstellari & navicelle spaziali, non riesce in nessun modo ad affrancarsi dall’archetipo costituito da 2001: Odissea nello spazio. Facciamo un po’ di chiarezza: il canone cinematografico è costituito dai film più belli prodotti dagli albori del cinema ad oggi (ora potete tranquillamente scannarvi per stilarlo tutto intero, decidendo chi salvare e chi sommergere). A parte alcune zone d’ombra, per film più o meno discussi, si possono legittimamente inserire all’interno del canone cinematografico tutti quei film che hanno fatto la storia. “Fare la storia” significa tendenzialmente essere così rivoluzionari – e così belli – da fissare uno standard, imprimersi in maniera indelebile nell’immaginario collettivo e diventare appunto un caposaldo, un archetipo del proprio genere di appartenenza e quindi della cinematografia tutta. Accanto a Quarto potere, a Il padrino e a C’era una volta il West, dunque, c’è anche 2001: Odissea nello spazio, capostipite ingombrante di tutti i film di fantascienza. Cosa significa? Significa che ogni film che è venuto dopo ha dovuto, volente o nolente, fronteggiarsi con il film di Kubrick: l’ha, magari anche involontariamente, imitato, se non addirittura copiato, cercando al contempo disperatamente di superarlo.
Missione impossibile, perché la grandezza e la visionarietà raggiunta da 2001: Odissea nello spazio è difficilmente replicabile e/o superabile. Non solo per la profondità dei temi trattati, che sono squisitamente filosofici – e, si sa, la filosofia al pubblico è sovente indigesta – ma anche per il modo in cui questa è parte del tessuto del film. La storia raccontata in un film può, a volte, sollevare interrogativi filosofici. Se volete un esempio immediato, si può indicare Ex Machina come film ricco di tematiche filosofiche su cui speculare. In 2001, invece, è proprio la filosofia – non quella che aiuta a vivere, peraltro, ma quella dura e pura à la Hegel, à la Heidegger – a entrare massicciamente nella storia e a costituirla nel suo essere più profondo, determinandone al contempo anche la non facile comprensione da parte dello spettatore. Il senso di 2001 è difficilmente afferrabile proprio per questo: perché le immagini rimangono ineluttabilmente assoggettate al tema filosofico di fondo, e si spiegano solo ed esclusivamente a partire da esso. Ciò non toglie, però, che si possa esperire il film anche in maniera “inconsapevole”: arrovellandosi dunque sul significato del film, ma solo dopo averlo “vissuto” ed essersi fatti coinvolgere dalla visionarietà della pellicola.
Visionarietà peraltro sostenuta da una tecnica saldissima: Kubrick era tutt’altro che uno sprovveduto, e se ancora oggi gli astrofisici considerano estremamente verosimili i movimenti e gli interventi operativi degli astronauti di 2001, significa che Stanley non ha lasciato nulla al caso. Le grandi opere – e quindi i grandi film – sono sempre il frutto di questo raro connubio tra creatività e perizia, tra fantasia e metodo. Diffidate da chi inneggia al sentimento tralasciando l’artigianato: nessuno di loro entrerà nel canone.
Questa attenzione maniacale al dettaglio tecnico si riscontra in 2001 non solo nell’accuratezza scientifica del film, ma anche nella scenografia. Che, difatti, è stata concepita in modo tale da sospendere benissimo l’incredulità dello spettatore, malgrado lo spettatore l’interno di una navicella non l’avesse mai vista (era il 1968 e solo l’anno seguente la gente comune avrebbe visto in TV l’Apollo 11). Ma non è solo una questione di verosimiglianza: quel design ha creato un archetipo, e si è impresso così a fondo nell’immaginario di tutti, che, a distanza di cinquant’anni, quando al cinema si vuole riproporre l’interno di una navicella spaziale, questo non potrà che essere una copia, più o meno bella, dell’originale kubrickiano. Una riproduzione che sarà certamente integrata con elementi digitali nuovi e schermi di computer più avveniristici (e infatti gli schermi del Discovery sono adorabilmente datati, così come i costumi degli attori, irrimediabilmente legati alla moda del tempo), ma comunque una riproduzione. La supremazia delle linee curve e bombate su quelle spezzate, l’onnipresenza del bianco, l’assenza di ortogonalità proposte da Kubrick sono caratteristiche, per dire, presenti anche nella navicella del brutto Passengers (2016).
Solo che, mentre degli effetti speciali di Passengers fra due anni ci saremo completamente dimenticati, dopo cinquant’anni continuiamo ad ammirare gli effetti speciali di 2001, al netto dei costumi da ominidi, del front projection e dell’assenza del green screen. Succede quando il talento creativo non si asservisce alla tecnica: solo così il genio regala capolavori irraggiungibili.
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