Wonderstruck – La stanza delle meraviglie: il vertice favolistico di Todd Haynes

Wonderstruck – La stanza delle meraviglie: il vertice favolistico di Todd Haynes

June 14, 2018 0 By Alessandro Fiesoli

C’è sempre stata una dimensione fiabesca nel cinema di Todd Haynes, un immaginario fatto di epoche distanti ma non troppo e di tematizzazioni universali degne di ogni favola che si rispetti. Dopo il melodramma di integrazione, di tolleranza e di tutti i buoni sentimenti nei sempre godibili – talvolta notevoli – lavori precedenti, ecco che il focus dell’occhio di Haynes si posa sull’essenza pura del racconto fatato e familiare, quasi a voler sugellare un percorso omogeneo che ne segna ormai da tempo la carriera. Non è un caso dunque che dal romanzo che muoveva Carol e dalla vita reale di Io non sono qui il cineasta losangelino metta le mani su di una graphic novel di Brian Selznick (autore di Hugo Cabret, di cui si sentono gli echi) stracolma di miti e di un gusto cinefilo che si traduce poi in certe soluzioni tecniche che segnano l’intera pellicola.

Ci si muove su una stratificazione temporale dapprima fin troppo massiccia e poi presto risolta: 1977, Minnesota. Ben, ragazzino turbato da incubi ricorrenti e dal ricordo della madre defunta, ritrova casualmente un biglietto da visita che potrebbe indicare la bottega del padre mai conosciuto. Parallelamente, nel ’27 in New Jersey, Rose – bambina sorda vessata dal padre/tutore – abbandona la propria abitazione per cercare la madre, diva del cinema muto. Ci sarà una tempesta, tanto sullo schermo meta-cinematografico quanto fuori dalla casa di Ben, e ci saranno dei fulmini e un incidente che lo renderà tragicamente invalido come la ragazzina in bianco e nero.

È qui che l’accostamento col montaggio parallelo di piani temporali, di bianco e nero, di cinema sonoro e cinema muto restituisce in una manciata di secondi tutta l’anima tecnica e cinefila della pellicola di Haynes. Prima ancora di gettare le basi drammaturgiche del romanzo familiare si delineano allora i contenuti accessori che in prima istanza elaborano il dramma della fine di un’epoca cinematografica e solo successivamente quello personale dei protagonisti. L’handicap della sordità consente al cineasta di recuperare per lunghi tratti di film quel cinema muto di cui si accenna la morte, mentre minuto dopo minuto le due linee narrative verranno sempre più ad incrociarsi inaspettatamente.

È poi il ricorso reiterato alla casualità, al fato e alle stelle – tanto quelle del grande schermo quanto i corpi celesti (“Siamo tutti nei bassifondi ma alcuni di noi guardano alle stelle”) – a indirizzare lo spettatore verso quell’aria fatata che ne sospende l’incredulità come nel miglior cinema classico, lasciando intravedere molteplici temi ricorrenti in ogni scorribanda dei due protagonisti: l’amicizia, la solitudine, lo stupore che caratterizza l’infanzia (come da titolo) e la formazione di un’identità. In questo senso la fruizione e la scrittura vengono agevolate dal furbo utilizzo di bambini dal carattere solido, talvolta ingenui ma mai irritanti, proprio in virtù di una maturazione forzata figlia di disgrazie e perdite messe a frutto nella fuga verso la grande città. Non si pensi ad un gioco al massacro o ad una lagna indotta: nel complesso vi si rintracciano non poche gratificazioni, alleggerimenti che accompagnano a un sorriso e un lavoro al sonoro che si porta sulle spalle gran parte degli elementi che riequilibrano i toni verso la commedia di formazione più che sul dramma compassionevole.

Tornando quindi a giocare con un’America idealizzata, con i modellini e i giocattoli infantili (Rose costruisce palazzi con i fogli di giornale, realizzando la city che le ricorda la madre) e le meraviglie delle botteghe nascoste, Haynes resta fedele al lavoro di Selznick e ne fa una versione in movimento intelligente, capace di cogliere i sentimenti più universali e di ammiccare tanto alle proprie idiosincrasie quanto a quelle del feticista, basti guardare alle false citazioni riporto con Julianne Moore protagonista, qui impreziosita da una presenza sullo schermo centellinata, tesa proprio a restituirne l’immagine di diva tanto più preziosa quanto più assente.

Alessandro Fiesoli