Il Cinema Ritrovato 2018: Il Cacciatore, lo sguardo di Cimino verso l’America

Il Cinema Ritrovato 2018: Il Cacciatore, lo sguardo di Cimino verso l’America

July 3, 2018 0 By Emilio Occhialini

In occasione dei 40 anni dalla sua uscita nelle sale cinematografiche, la Cineteca di Bologna ha proiettato in Piazza Maggiore Il Cacciatore, uno dei capolavori assoluti di Michael Cimino. Era una delle proiezioni più attese di quelle previste alla 32° edizione del Cinema Ritrovato, un’attesa confermata da una piazza intera mai così silenziosa e attenta alle immagini che scorrevano solenni per tre ore sullo schermo bianco della Piazza, neanche la pioggia (seppur innocua) ha fatto smuovere gli spettatori dall’evento che concentrava in sé lo sguardo stupito di centinaia di persone sedute per terra, su sedie di plastica e sugli scalini della Basilica di San Petronio.

Il Cacciatore esce nel 1978 e fin da subito è oggetto di numerose critiche per l’immagine reazionaria che sembra trasparire dall’esasperazione violenta con la quale vengono rappresentati i vietcong, tuttavia Cimino stesso fin da subito ha ribadito che il suo non è principalmente un film di guerra ma un film sull’amicizia e di legami mutilati dalla traumatica esperienza americana del Vietnam che impegnò tragicamente gli Stati Uniti per più di 10 lunghi anni.

Dopo la caduta di Saigon nel 1975, agli occhi del resto del mondo gli Stati Uniti d’America non avevano più la reputazione di nazione modello, un’immagine già precariamente minata dall’esperienza della guerra di Corea. Senza addentrarci in troppi dettagli storici, Cimino dimostra comunque una lucida inflessione a parlare dell’America contemporanea e del senso di smarrimento vissuto dai cittadini insieme al mondo intero. La guerra era finita solo pochi anni prima e Cimino si prendeva la responsabilità di essere tra i primi a servirsi del mezzo cinema per mostrare gli americani all’America dopo il Vietnam, solo Scorsese e Schrader lo avevano preceduto pochi anni prima con le nevrosi del tassista Travis Bickle nella giungla metropolitana della Grande Mela, e solo un anno dopo Francis Ford Coppola porterà nelle sale l’incubo allucinato di Conrad per sviscerare i dubbi e le inquietudini dell’uomo sugli orrori compiuti in Vietnam.

La guerra quindi come trauma psicologico, come lacerazione dei legami affettivi e come dimensione inconscia e perturbante che sporca la purezza della vita di provincia americana. Cimino lungo la sua sfortunata carriera di pochi ma soprattutto grandi titoli si è sempre voluto interrogare sull’essere americano, sull’attaccamento ai valori americani da parte dei cittadini, e sull’utopia americana che un dato contesto storico e culturale sembra realizzare per poi perderlo nel tempo.

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I fuochi che aprono Il Cacciatore non sono quelli di colpi da fuoco nei campi di battaglia vietnamiti ma sono i fuochi di un’acciaieria, luogo di lavoro dove conosciamo i nostri protagonisti prima che si dedichino alle loro distrazioni quotidiane, come ritrovarsi ubriachi al pub prima del matrimonio del giovane Steven, cosa che fa arrabbiare l’anziana madre che sta gestendo i preparativi della cerimonia ortodossa che occuperà tutta la prima lunga parte della pellicola. Si parte da una dimensione ludica, di spensieratezza e grandi sentimenti di amicizia e amore per una ragazza, un luogo e tempo di speranza e tradizioni tramandate di una provincia di cittadini d’origine europea ormai totalmente integrati dentro l’american way of life, che precede la tempesta dei grandi cambiamenti della storia. “Cognome russo? No, Americano”.

Steven, Nick e Mike sono figli di una generazione di padri e madri che si sono ormai lasciati alle spalle il lungo processo di integrazione cosmopolita che ha caratterizzato la formazione degli USA. Non sarebbe del tutto sbagliato ritrovare ne Il Cacciatore una certa continuità con gli eventi narrati nel successivo, fallimentare eppure grandioso I Cancelli del cielo, opera sontuosa che chiude il mito del West raccontando parallelamente alle storie dei protagonisti i problemi delle grandi emigrazioni europee che presero luogo nell’America di fine 19° secolo.

La grandezza di Cimino sta nell’aver saputo tracciare un affresco epico e romantico affrontando trasversalmente generi cinematografici con eventi che hanno formato l’identità americana: l’esordio nell’heist movie, il war movie e l’impatto sul singolo nella provincia americna, il western e il grande momento delle ingenti immigrazioni, il noir e il problema della mafia cinese nelle grandi metropoli, e infine il road-movie con l’ultimo lungometraggio (Verso il sole) per rileggere l’attaccamento dei nativi americani alla propria terra.  Alla lunga sequenza del matrimonio iniziale de Il Cacciatore si potrebbe tranquillamente contrappore la bellissima sequenza d’apertura delle lauree e dei balli di Harvard dei Cancelli del cielo, come in una sinfonia musicale si assiste ad un primo di tre movimenti che compongono il ritmo filmico, un lento che precede l’adagio impetuoso e allucinato della parte in Vietnam, preannunciandolo con piccoli escamotage cinematografici che fanno da preludio alla tempesta bellica (il vino che solo noi spettatori ci è concesso vedere, le foto in grande dei futuri soldati, la caccia, il colonnello al matrimonio). E infine un terzo lento, solenne e funereo atto che chiude il film su uno dei finali più struggenti del cinema americano: un funerale, gli amici al bar, la mancanza di parole, il silenzio di una nazione, God Bless America.

La guerra è la parte più allucinata del film, come incubo che ci risveglia con il protagonista nel cuore dell’azione, mentre nella scena immediatamente precedente eravamo catturati nella scena da sogno della caccia al cervo. La narrazione si fa di colpo più rarefatta e Cimino ci porta di colpo nell’incubo della roulette russa. La guerra diventa un gioco al massacro, una scommessa e un girone infernale che rotea come il tamburo di una rivoltella.

Ancora oggi rimaniamo ammutoliti dall’importanza del Cacciatore di Cimino, dalla fotografia di Zsigmond e dalle interpretazioni di De Niro, Walken, Cazale, Savage e Streep, dallo sguardo speranzoso e illuso di un gruppo di amici, di una nazione, di un pezzo di storia, di uno specchio d’umanità e fratellanza.

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Emilio Occhialini