
La simbiosi dei folli: The Killing Joke di Alan Moore
July 18, 2018Nessun’opera è riuscita a raccontare il rapporto tra Batman e il Joker come il graphic novel The Killing Joke (1988) della coppia Alan Moore (ai testi) e Brian Bolland (ai disegni, e anche ai colori nella nuova edizione del 2008). Più che di Moore, di cui questo fumetto costituisce un’opera minore, la paternità di Killing Joke è da attribuire a Bolland. La sceneggiatura e i disegni sono a tal punto ricercati, e la filosofia di fondo a tal punto complessa, da rendere Killing Joke un autentico gioiello nel panorama fumettistico.
Sono i particolari che differenziano le opere. Osservando il piglio registico di Alan Moore, il suo sguardo per i particolari, il rigore delle sequenze (meno eclatanti rispetto al colossale, granitico Watchmen), si ha la certezza di trovarsi dinanzi ad un fumetto che, oltre ad essere di folgorante bellezza, procura una inquietudine talmente vivida da accapponare la pelle.
A rendere il fumetto tanto interessante è anche il suo inserimento in quel filone di opere autoriali (da Frank Miller, a Tim Sale e Grant Morrison) che hanno scandagliato i tratti più oscuri della psicologia dei folli. L’elemento comune, nella straripante mole di graphic novel, è che nella marea di folli il più folle è proprio Batman, come eco burtoniana del Crociato di Gotham, nonostante i suoi tentativi di repressione della propria natura.
Batman è un pazzo. Addomesticato, addobbato di nobili intenzioni, ma sostanzialmente un ipocrita. Killing Joke toglie la maschera al Pipistrello e affronta il suo volto reale, partendo dal racconto di una barzelletta che fa da sfondo all’intera opera (“Ci sono due matti in un manicomio….”). Grant Morrison, nel suo Arkham Asylum, giunge ad esplorare anche alcuni tratti controversi della sessualità di Bruce Wayne, portando avanti un ragionamento ancor più viscerale: la fortuna di Batman risiede in questo, nella sua dimensione oscura e perennemente esplorabile, su cui edificare complessi psicologici verosimili e sempre affascinanti.
Alan Moore, pur senza essere ardito quanto Morrison, lavora su un assunto di eguale potenza: tra i folli e i normali scorre un filo sottilissimo, quasi invisibile, volti liquidi della stessa medaglia: a transitare tra le controparti basta solo una giornata storta, a sufficienza traumatizzante. Ed il trauma, ancora dopo Burton, è l’elemento che congiunge la paradossale sincerità del Joker all’ipocrisia moralistica di Batman, che nasconde la follia nonostante egli, come gli altri, abbia subito un trauma (e in questo l’asse Miller-Nolan ha dominato nella scrittura, mentre la corporeità di Ben Affleck ha restituito all’immagine il trauma ancora legato alla scrittura, quel trauma che Christian Bale, nella sua tormentosa nostalgia, non ha potuto estrinsecare).
Le origini del Joker, in Killing Joke, possono essere uno dei tanti frutti di una mente delirante, nolaniana, oppure il passato reale di un comico senza successo, senza soldi, con una moglie morta in un incidente e costretto a portare a termine un furto con dei criminali a cui si era legato per guadagnare qualche spicciolo: la classica immagine del pagliaccio triste. Non fa differenza: alcune sequenze sono spettrali, si rabbrividisce tenendo strette le pagine. The Killing Joke entra nella pelle e non può, né vuole, uscirne.
Dopo esser caduto nelle acque di un fiume, in un flashback bianco e nero (tranne per alcuni particolari in rosso), il comico fallito riemerge coi colori del Joker, divenuto finalmente pazzo. La pazzia è l’unica via di fuga, come ha modo di spiegare lo stesso Joker in un successivo sproloquio, la pazzia è ciò che preserva la sanità mentale di un cervello troppo fragile o indebolito dai traumi, che non ha altrimenti modo di sfogare la propria frustrazione. Paradossale! Eppure…
Tutti i sani sono folli, e tutti i folli sono sani. Poiché non esiste differenza, essendo entrambe le parti in costante dialogo, l’idea del Joker è di costringere Jim Gordon, ritenuto apoteosi della giustizia e dell’equilibrio, ad impazzire (interessante, a questo proposito, alcune considerazioni di Gary Oldman alla fine de Il Cavaliere Oscuro, quando sostiene che l’intera opera di Joker era prendere il migliore tra di loro, Harvey Dent, e farlo a pezzi, per dimostrare che persino i migliori possono cadere). Ed in effetti, il Joker di Moore/Bolland si comporta come agente del caos, al pari del Joker di Nolan.
Nella spirale di follia interviene allora Batman, animato, più che dal senso di giustizia, dalla sua ossessione per il Joker. Bruce Wayne comprende come il loro rapporto sia indissolubile, come l’uno tragga linfa vitale dall’altro, sfruttandolo per legittimare la propria opera, per dare un senso alla propria esistenza. In Killing Joke non è il Joker ad essere ossessionato da Batman, non è il seviziato Gordon a soffrire realmente: la vera vittima è il Cavaliere Oscuro (l’esatto opposto avviene ne Il ritorno del Cavaliere Oscuro di Miller, in cui il Joker, dopo il ritiro di Batman, ha perso ogni ragione d’essere).
Qui invece Batman è attratto dall’anarchia del Joker, finge di ripudiarla, sa che la morbosità del loro rapporto condurrà alla morte di uno o dell’altro, vuole comprendere quali siano le fonti della follia del Clown, perché in esso Bruce Wayne riesce a specchiarsi, e riconoscendolo come simile ha l’urgenza di comprendere l’odio reciproco, gli elementi di identificazione, la matrice folle della loro psiche.
In chiusura dell’opera, giunge il confronto tra i due, uniti da un fatale magnetismo. Il Joker racconta la barzelletta avviata in apertura, e le ultime sequenze restano sospese nel dubbio, lasciando intuire l’emergere della pazzia e, finalmente, la tanto agognata simbiosi.
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