
Appunti sparsi per Louisiana (The Other Side) di Roberto Minervini
August 21, 2018Le nuove milizie, organizzate da sole per autodifendersi, si muovono nella foresta col passo felpato dei Wardogs in Manhunt, ma non si tratta di un videogame. Tute mimetiche per camuffarsi con la vegetazione, pesanti fucili e mitragliatrici. Addestramenti, simulazioni, comunicazione gestuale. I colpi esplosi e il silenzio rotto solo dai passi. La sagoma a colori di John Wayne appoggiata sul muro della casa dov’è in corso una riunione, a parlare sono reduci e veterani i quali si rivolgono a nuove leve inesperte. Non si sa quando, ma prima o poi arriverà una rivoluzione e c’è chi sente il bisogno di prepararsi fin da ora.
L’America come regno privilegiato della paranoia e ignoranza nell’indimenticabile Louisiana (The Other Side) del marchigiano Roberto Minervini, uno di quei titoli che dovrebbero uscire dal circuito dei festival addicted e abbracciare le masse o almeno tutti gli studenti di cinema perché questa ne è una grande lezione. Tre dimensioni: quella di Mark, nel suo percorso di redenzione impossibile, e ai bordi quella degli uomini in rotta di collisione col governo americano, razzisti e neo-fascisti a cui manca solo il cappuccio bianco del KKK, e infine quella dei vecchi, falliti e finiti, ma con nel cuore la speranza (oggi, tre/quattro anni dopo, completamente delusa) di un futuro con Hillary Clinton come nuovo Presidente. In ognuno dei casi, di white trash si tratta.
L’elevazione verso uno status migliore è influita dal contesto geografico, ma è la cultura a permetterla (questa un’altra grande lezione, diversa, che fuoriesce da alcuni documentari di Frederick Wiseman come At Berkeley o Ex Libris). Il mondo che Minervini ci permette di conoscere da vicino è lontano migliaia di anni. L’ignoranza è un flagello, la mentalità è ferma a quella dei primi coloni e l’alcolismo e la droga sono accessibili a chiunque. Storie di crack e coca in pipetta che fanno male tanto ai polmoni quanto ai neuroni, denti mancanti e tatuaggi sul collo, bollette non pagate e corrente tolta, carcasse di automobili distrutte, calzini bianchi sul cazzo come i Red Hot Chili Peppers nel 1988. Lo squallore della stripper incinta che si fa sparare una pera in vena e la grazia dei due tossici che fanno l’amore e poi cucinano stupefacenti da vendere.
Nel degrado più totale rimane la dignità data dal produrre: anche se al gabbio si può contare su una branda e tre pasti caldi al giorno, lavorare è meglio che finire in galera. Un’idea di purezza, smacchiata via da tutto quanto, s’intravede nell’acqua delle paludi, in mezzo alle mangrovie e ai cipressi calvi coi loro pneumatofori. Un’idea che compare e svanisce in un battibaleno. Il piano di Mark per ripulirsi dalle sostanze che ne inquinano il corpo e da lì ripartire da zero è solido come un ponte marcio che crolla sotto il peso delle contraddizioni di un paese dove la libertà è solo una parola che innesca illusione e la schiavitù (nei confronti del Consumo) è un giogo che ci si mette al collo il giorno stesso in cui si nasce e ci si consegna al governo come bestie indocilite.
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