
Venezia75: Frères Ennemis, nessuna innocenza
September 6, 2018Frères Ennemis, regia di David Oelhoffen, pellicola in Concorso alla 75esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Crescere in un quartiere periferico di Parigi può comportare, come era stato per il giovane Martin Scorsese a Little Italy, la compartecipazione ad un contesto sociale sostanzialmente criminoso. Scegliere successivamente se mantenere una consapevole aderenza a quel microcosmo, oppure evadere seguendo altri precetti, diviene un obbligo piuttosto che una possibilità.
Dei due Fratelli/Nemici a cui il titolo rimanda, uno è entrato a far parte della divisone narcotici della polizia, l’altro è rimasto fedele al vecchio contesto sociale e valoriale, dentro una Parigi svestita di eleganza e pregna del nero della notte e del marciume underground. Il difficile rapporto tra il dovere e l’amicizia esita in angoscia esistenziale, poiché l’ingresso nella società civilizzata è un percorso di iniziazione che non risparmia la convivenza col dolore. Le atmosfere cupe, i pedinamenti con camera a mano, le panoramiche notturne dall’alto, la caligine che confonde i pensieri di giorno e le luci giallastre della strada che penetrano negli appartamenti di notte: è la ricostruzione di un noir intellettuale, melvilliano, senza corpi affamati, senza clamori, soffuso e implacabile nel proprio incedere.
Quando la vita del vecchio amico Manuel (Matthias Schoenaerts) è minacciata dal suo coinvolgimento in un traffico di stupefacenti e dall’accusa di omicidio di un membro della banda, il poliziotto Driss (Reda Kateb) si adopera a qualsiasi mezzo per difenderlo dalle accuse e salvargli la vita. Sono entrambi di estrazione islamica, entrambi provenienti da un contesto culturale rigido e immutabile (il fatto che Driss abbia rinnegato le vecchie tradizioni per abbracciare la società occidentale francese è motivo di sdegno, una forma imperdonabile di tradimento).
Da un lato la dicotomia tradizione/innovazione, che mantiene la struttura del ghetto di periferia nella grande metropoli, dall’altro l’infezione capitalistica che trascende qualsiasi architettura culturale. La corruzione del mondo criminale non conosce rapporti affettivi, non discrimina tra fratelli o nemici, segue la propria logica di automantenimento per soddisfare i propri istinti. Dress, che in una scena commenta l’evoluzione delle periferie da guerriglie tra gang a malavita strutturata a scopo di guadagno, continua a recare nel cuore l’antica idea di ghetto, lontana da cieche logiche di opportunismo, e piega spesso la legge in favore di quello che considera un diritto di natura (o dello stesso ghetto).
Parigi, come nei migliori polar, è sfondo e oggetto della narrazione, accompagnando i tormenti dei personaggi, terra ostile e prodiga di cadaveri, mezzo ideale con cui raccontare la miseria degli uomini.
Quando Manuel comprende che è proprio il vecchio mondo ad aver tradito le sue aspettative di giustizia, l’unica alternativa possibile diventa la vendetta personale, ossia l’ammissione dell’assenza di leggi: la sua parabola esperienziale conduce all’infelicità, alla solitudine, alla perdita irrinunciabile dell’onore.
Qualsiasi sia la scelta adottata, la speranza di felicità rimane promessa illusoria anche per Dress. Da uomo di legge, egli continua ad essere logorato dalla colpa della rinuncia ad un passato controverso, tuttavia spensierato. Paradossalmente, il crimine che circondava le esistenze, come un immobile assioma, restava confinato a cornice senza sostanza di un mondo di relazioni innocenti. Dress può ancora sognare questo vecchio mondo, possibilità che a Manuel viene per sempre negata.
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