
Venezia75: Charlie Says, il cerchio magico di Manson all’alba del massacro
September 9, 2018“We all belong to Charlie”
Lo sanno tutti: il 9 agosto 1969 finiscono i postumi della Summer of Love. Parte della gang di Charles Manson viene mandata in una villa a Beverly Hills per commettere una brutale strage dove, tra le varie persone, viene anche uccisa Sharon Tate (moglie di Roman Polanski). Quentin Tarantino ci sta girando un film, Once Upon a Time in Hollywood, che uscirà per il cinquantenario di questo triste avvenimento. Contemporaneamente, i creatori della serie tv Mindhunter renderanno Manson uno dei personaggi di punta della seconda stagione.
È ormai un dato di fatto quanto la figura di Charles Manson affascini ancora i cineasti e il pubblico di oggi. Visionato alla 75ma Mostra del Cinema di Venezia, pure Charlie Says di Mary Harron (QUI la nostra intervista alla regista e alla sceneggiatrice) s’inserisce perfettamente in un quadro più generale sempre collegato al medesimo tema. Nel film non si spiega cosa abbia reso folle quell’uomo né ci si sofferma troppo sull’omicidio Tate o sull’incarceramento del mandante perché lo scopo ultimo è quello di mostrare il lavaggio del cervello operato sulle menti delle ragazze che convivono con Manson, che uccidono per lui, che fanno tutto ciò che lui dice loro di fare.
Le ragazze di Charlie, chiamarle Charlie’s Angels sarebbe stato eccessivo, si sono fottute i neuroni con la droga (erba e acidi), si sono volutamente allontanate dalla loro casa per far parte del ranch dove Manson si è stabilito in pianta stabile, una ex location per B-movies e robaccia televisiva il cui proprietario è un cieco che gratuitamente la concede a quella comunità di strafattoni in cambio di qualche sega da parte delle inquiline. Un contesto degradante dove nulla di buono può avvenire. E infatti, lì viene tutto organizzato come all’interno di un regime totalitario: regole, ordini, obblighi. Alle ragazze viene insegnato a colpevolizzare i propri genitori (Manson diventa come un padre-marito), a fare l’elemosina in giro, a raccogliere la verdura buttata nell’immondizia, a vivere senza orologi o calendari perché conta solo la dimensione del presente (neppure il passato esiste più perché il tempo inizia a scorrere solo da quando hanno conosciuto Manson, altra lezione impartita dal loro nuovo padrone), a credere agli elfi e ai folletti, a prostituirsi, infine a uccidere l’ego prima di andare ad ammazzare sul serio gente a Los Angeles.
Si nota un progressivo peggiorare della condizione in cui vivono le giovani donne, è un declino morale che le porta ad annientare la loro esistenza. È in atto una distruzione dell’identità, esattamente -come già scritto poco sopra- in una dittatura, qualcosa che si comprende con ancor più evidenza allorché le tre protagoniste vengono mostrate dentro il carcere dove sono detenute. Si trovano in prigione e se da un lato sono convinte di ciò che hanno fatto (ossia togliere la vita a innocenti), nel corso del tempo realizzano a fatica l’errore commesso. Il pentimento si fa strada nella loro coscienza solo grazie alla figura di una psichiatra che tenta di dar loro una mano. Da quel momento, c’è chi si converte al Cristianesimo e chi si rifugia in altre forme di evasione mentale.
Nonostante la produzione indipendente e il basso budget, con Charlie Says Mary Harron ha diretto un film solido, istruttivo, capace di fare luce su un episodio della storia americana che se, sì, è stato studiato e analizzato minuziosamente, tuttavia conserva una macabra fascinazione e misteri irrisolti. Charlie Says non raggiunge i livelli di American Psycho, ma non vuole neanche farlo. In qualche modo e senza la stessa eleganza o matrice letteraria, è accumunabile ad Alias Grace. L’interiore purezza sotto una coltre di colpe e peccati accumunano le giovani in galera mostrate in questi due prodotti d’intrattenimento (l’uno cinematografico, l’altro televisivo), donne schiacciate da uomini disonesti e che vedono pregiudicato il loro futuro a causa di scelte sbagliate che, seppur traviate, esse stesse hanno commesso. In un mare di qualunquismo nell’industria dello spettacolo, è un modo interessante di ragionare sulla società patriarcale e le sue implicazioni.
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