
Venezia75: Piangere diamanti con Zan – The Killing di Tsukamoto
September 12, 2018Il 6 settembre è stata forse la fatidica data per molti, addetti alla stampa e non: il giorno di Shin’ya Tsukamoto e del suo attesissimo ritorno alla Mostra del Cinema di Venezia con Zan – The Killing, quattro anni dopo l’uscita a bocca asciutta di Nobi – Fires on the plain. Lo abbiamo aspettato con trepidazione, con bisogno e con stanchezza, come se fosse una prassi terapeutica poter rientrare nel mondo di Tsukamoto dopo sette giornate di film dalla durata di oltre 120 minuti ognuno. E con i suoi 80 minuti di film, Shin’ya è arrivato a Lido con un piccolo grande film che riconferma la maestria del regista giapponese di portare avanti un’idea di cinema come efficace e letale sintesi tra azione e racconto. Con la grazia e la fermezza di un samurai, Tsukamoto manovra la telecamera come se fosse una katana, gli basta un colpo breve, secco e deciso.
Così è stato il suo ultimo film dopo l’immancabile “A Kaiju production”, le prime immagini che aprono le danze sono quelle di un fuoco incandescente, per poi passare alle mani umane in una fucina che forgiano pian piano dall’acciaio fuso una katana, l’arma del film. Un incipit folgorante, fisico e concreto che riassume tutto il film in pochi minuti, sotto le note di una martellante colonna sonora che ci prepara allo spettacolo audiovisivo dei successivi minuti di film.
In linea col discorso che Tsukamoto porta avanti già dal suo esordio Tetsuo del 1989, l’incipit di Zan stabilisce subito la materia di cui è fatta il film; la spada forgiata dall’acciaio incandescente è una protesi del corpo umano, una sintesi tra il corpo e lo spirito, tra il pensiero e l’atto. E poi parte la storia, quella di Tsuzuki, Ichizuke, Yu e Sawamura, quattro personaggi attorno ai quali ruota la trama ambientata nel periodo Edo.
Tzusuki è un giovane e umile samurai che difende la famiglia di Ichizuke e Yu da una banda di predoni; Ichizuke si allena con Tzusuki, mentre per quest’ultimo Yo prova dei sentimenti; dopo aver assistito ad un allenamento tra Tsusuko e Ichizuke, il ronin Sawamura decide di assumerli con se per formare una squadra di guerrieri per portarli con se verso Edo a difendere lo Shogun.
La missione è un semplice ed efficace McGuffin scelto da Tsukamoto per raccontare una mancata attuazione di un qualcosa, forse dell’atto di uccidere a cui allude il titolo, o magari di un’impotenza, quella che lascia lo sguardo a semplice contemplazione degli eventi, come quella tra Tsuzuki e Yu, limitata da una parete di legno tra un atto masturbatorio e autoerotico. Sawamura, interpretato dallo stesso regista, è l’ennesima figura demiurga ed estranea che dovrebbe riportare l’ordine tra i personaggi, ma la loro condizione (l’essere inetti e deboli, incapaci di dare una consistenza al proprio corpo e alle proprie azioni) porta inevitabilmente al caos e alla morte.
Il titolo del film è traducibile come “Uccidere / L’Uccisione” ma quello a cui assistiamo è una lenta morte che annulla il turbine sensoriale del film. Shin’ya Tsukamoto forgia un film fatto di dissolvenze, riprese caotiche e dinamiche e di un assordante lavoro di sound design, tutti espedienti registici che fanno da contrappunto a momenti di silenzio e contemplazione degli uomini tra la natura. La telecamera coglie gli eventi e i corpi in tutta la loro sfuggevolezza fino al totale silenzio; quando non ci sono più gli uomini a combattere nel campo non resta che la morte, il silenzio, e infine la ripresa digitale che continua a filmare un bosco opprimente e svuotato di ogni senso. Sawamura e Tsukamoto, il maestro samurai e maestro regista, colgono un mondo che si svuota di significato, senza eredi a cui insegnare il mestiere, un mondo sterile e senza vita. Coerentemente in linea con la piccola parte che Tsukamoto aveva avuto in Silence di Scorsese, è proprio lì, nel silenzio di un martire, di una figura centrale al centro degli eventi, che si sintetizza il punto d’arrivo di questo film, il canto del cigno del samurai nel JidaiGeki nell’era del digitale.
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