
Thessaloniki 2018: Meili, una bellissima storia di solitudine
November 2, 2018Changchun, provincia cinese, oggi. Meili è una ventiduenne subissata di preoccupazioni, ha una complicata relazione con una ragazza, perde un lavoro dopo l’altro, viene vessata da suo cognato che l’ha violentata anni prima per metterla incinta visto che la sorella di lei (e moglie di lui) è sterile. Nonostante la tragicità di quella esistenza, Meili non si abbatte e prova a immaginare un futuro migliore, forse a Shanghai. Riuscirà la protagonista ad allontanarsi da tutto e tutti per poter ricominciare da zero una nuova vita?
Primo lungometraggio del regista Zhou Zhou, Meili è un grande esordio che meriterebbe maggiore attenzione da parte della critica internazionale. Sulla scia di altre opere realizzate in Cina, dall’elegiaco A Simple Goodbye (TFF33) al più recente The Silk and the Flame (Berlinale68), il film dipinge una nazione che dietro la facciata del boom economico nasconde miliardi di singoli individui tutt’altro che felici o benestanti. La vicenda di Meili è anche quella di innumerevoli giovani donne come lei in un paese, va detto, dove il genere femminile è realmente messo ai margini della società. Non sono leggende i migliaia, se non milioni, di infanticidi che annualmente vengono commessi dai neo-genitori quando nascono bambine invece che bambini e, prima, non è stato possibile percorrere la strada dell’aborto.
In Cina, dove la politica del figlio unico è stata abolita solo nel 2013 (da allora le famiglie possono avere due figli), è un dato di fatto che un maschio valga più di una femmina. Per quanto desolante questa considerazione possa suonare, è un dato di fatto. Lungo tutto il film, ai bordi della narrazione, si dipana un discorso sulla procreazione che non viene mai apertamente trattato perché dalla trattazione molto complicata.
Meili è innanzitutto il ritratto di una ragazza senza punti di riferimento e senza neanche un vero posto dove stare. Convive con la fidanzata e per questo motivo viene malvista dai suoi parenti (“lesbica puttana” le dice il violento cognato) e proprio quell’altra donna, che dovrebbe rappresentare la via di fuga da quel mondo tanto ostile, diventa origine a causa di altri problemi. Grazie alle molte riprese con steady-cam, lo spettatore accompagna Meili lungo negozi, appartamenti, labirintici corridoi d’hotel, strade illuminate da insegne al neon, finendo con l’osservarne le cadute, le reazioni impassibili e le esplosioni di rabbia, i rari attimi di gioia, la disperazione, la generosità, i momenti di piacere, il tempo speso a pulire abiti e togliere macchie impossibili da levare. Una storia di solitudine quella della protagonista, deprimente e bellissima allo stesso tempo.
Meili si spacca la schiena per gli altri senza mai ricevere qualcosa in cambio. Lo squallore della sua vita non è così diverso da quello della Cina nella sua totalità, con le sue piantine di plastica perché i cittadini a malapena riescono a prendersi cura di se stessi, i suoi karaoke bar dove ubriacarsi fino a star male, gli alberghi a ore per nascondersi e scopare, i balletti fuori dai negozi di telefonia, i giganteschi marchi esteri a soppiantare la piccola economia locale e così via.
Dopo l’anteprima mondiale al FIRST International Film Festival di Xining, Meili verrà proiettato alla 59ma edizione del festival di Thessaloniki (Grecia) assieme a film del calibro di Sunset e Roma (entrambi passati a Venezia75), Dogman di Matteo Garrone, Un affare di famiglia del giapponese Hirokazu Kore’eda.
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