
Solaris: gli specchi della mente in Tarkovskij e Soderbergh
November 15, 2018Solaris è un titolo che accomuna due registi di stili ed epoche diverse come Andreij Tarkovskij e Steven Soderbergh. Entrambi hanno riadattato l’omonimo romanzo di Stanislaw Lem (in Italia pubblicato da Sellerio Editore) per il grande schermo: la prima versione è quella sovietica (del 1972), mentre il remake è stato realizzato nel 2002. Nonostante la trasposizione sia avvenuta in modo differente, mettendo in risalto la ricerca morale e scientifica dell’uomo verso l’ignoto (in Tarkovskij) o rendendo centrale la storia d’amore (in Soderbergh) è riduttivo etichettare il film Solaris come genere di fantascienza.
Fondamentale è il percorso del protagonista Kelvin (il primo interprete è stato Donatas Banionis, seguito da George Clooney) verso la verità e una possibile risposta agli eventi che vivrà durante il periodo trascorso in orbita. L’incontro con l’ignoto, nell’impossibilità di una remota comprensione, è dovuto ad una mancanza di un linguaggio condiviso: da una parte abbiamo la debolezza dell’essere umano incapace di stabilire un contatto con l’altro (a discapito del progresso tecnologico-scientifico a sua disposizione) e dall’altra un oceano pulsante, il pianeta fumoso emerso dallo spazio profondo: Solaris. Kris Kelvin, viene inviato nella stazione attorno al pianeta per fare luce sui fatti che i suoi tre compagni scienziati si sono ritrovati a vivere (da strani fenomeni ad allucinazioni passando per stati di alterazione e suicidi). Rispondendo in questo modo anche alla loro richiesta di aiuto, Kelvin dovrà effettuare delle ricerche per prendere una decisione: tornare sulla terra o effettuare un contatto con questa cosa che nel frattempo sta reagendo, come se si sentisse osservata e minacciata.
Parafrasando un’altra opera successiva di Tarkovskij (Stalker del 1979) stiamo parlando di una zona, in continua trasformazione, un fluido capace di travalicare quei limiti imposti dalla ragione per dare forma a desideri e paure celati nell’inconscio dei personaggi. Infatti lo scontro del protagonista Kelvin si traduce nella materializzazione da parte del cervello pensante Solaris dei propri traumi e conflitti irrisolti. È sognando che i personaggi mettono in scena il ritorno dei propri fantasmi, una materia estrapolata dall’inconscio che emergerà come risposta del pianeta alle radiazioni di raggi X subite.
La vicinanza ad un mondo fisicamente lontano ed incomprensibile crea una nebulosa nella mente e nella coscienza della squadra scelta per l’impresa: Kelvin e compagni vengono attratti da questo stato illusorio e sospeso, in cui non solo le paure ma anche i desideri prendono forma. La volontà di tutti sarà messa a dura prova a partire dal senso etico alla morale passando per la responsabilità verso l’intera umanità. Sebbene consci dei rischi che avrebbero corso, ognuno di loro ha voluto tentare l’impresa in nome della ricerca.
Se in Tarkovskij è il pianeta Solaris il vero protagonista della storia, Soderbergh mette in risalto i sentimenti che uniscono Kelvin alla donna amata. L’opera sovietica, realizzata in piena guerra fredda, è audace per la sua epoca: come il protagonista anche Tarkovskij si spinge oltre, non solo nei confronti del suo paese (in cui arte e cultura dovevano fare i conti con le scelte politiche) ma anche rispetto al romanzo (il cineasta ha aggiunto dei frammenti biografici, della vita trascorsa con i propri genitori nella Dacia). Vengono così ripresi quei topoi che ritroveremo disseminati nella sua intera filmografia: ricordi, alberi, figura materna e paterna ma anche la casa e la pioggia. Il cortocircuito innescato nella scena finale, in cui l’Altro (Solaris) si sovrappone ai desideri (il ritorno) e all’inevitabile bisogno di Kelvin di essere perdonato dall’autorità paterna (che lo aveva avvertito dei rischi a cui andava incontro), si traduce per il regista americano in un senso di colpa di Kelvin tutto indirizzato verso la defunta moglie. In entrambe le versioni interviene l’elemento simbolico dell’acqua per purificare quei sentimenti stagnanti che rendono il protagonista statico ed incapace di agire in molte scene della pellicola.
I nomi dei personaggi hanno subito delle modifiche nel remake statunitense: lo scienziato Sartorius, pronto a tutto pur di difendere il progresso, (annientando anche ciò che non comprende) diventa il Dottor Gordon e sarà interpretato da una donna nera (l’attrice Viola Davis), Snaut sarà Snow (Jeremy Davies) mentre il corpo di Gibarian lo vedremo conservato in una cella frigorifera in entrambe le opere. In Soderbergh mancano le riunioni dell’incipit tarkovskiano di esperti di solaristica: una memoria in bianco e nero, registrata nei video-tape che Kelvin vedrà prima della partenza (nel caso della relazione dell’astronauta Berton su Solaris) e in orbita (nella testimonianza del suo compagno Gibarian). Kelvin intraprenderà comunque la sua odissea, mosso dalla sete della conoscenza, come un Ulisse spaziale.
“Noi non vogliamo altri mondi, vogliamo degli specchi”
Tarkovskij ha voluto ricreare delle situazioni ed ambienti reali, autentificando ciò che sta alla base della narrazione fittizia del testo letterario e cinematografico, affinché lo spettatore potesse riconoscersi. Un atto di sincerità che vede la scenografia domestica circondata da un legame terrestre mai reciso, fatto di mobili, suppellettili e vestiti. In una scena dove tutto appare senza tempo né spazio, i corpi degli amanti galleggiano in levità, fluttuando tra libri aperti e candelabri. I dipinti di Brueghel il vecchio fanno da sfondo a questo annullamento di ruoli e distanziamento terrestre. Anche in Soderbergh tempo e spazio reale si mischiano ad uno stato onirico, mentre la lentezza delle sequenze si chiude nell’oscurità delle dissolvenze a nero. I corridoi e le stanze diventano asettici, riportando un certo ordine al caos della navicella della versione russa. Fin dall’incipit della versione americana, seguiamo la vita sulla terra di Kelvin, in cui la routine viene distribuita tra fasi di lavoro e preparazione dei pasti, tra risvegli e silenzi. All’elemento della solitudine è inevitabile associare un senso di claustrofobia, dovuto alle molte scene girate all’interno dell’appartamento, vagoni della metropolitana o navicella.
I pochi momenti di apertura avvengono per strada, quando la mdp segue lo scienziato di spalle, in prospettiva soffusa di luce al neon, con la notte metropolitana e pioggia sull’impermeabile che fanno tanto Blade Runner. Dai sotterranei allo spazio sconfinato, la profondità della mente di Kelvin sperimenta sia la logica che l’irrazionalità non appena rivivrà il passato. La donna amata Harey (Natal’ja Sergeevna Bondarčuk in Tarkovskij) e anagrammata in Rheya (Natascha McElhone in Soderbergh) è una presenza/assenza che domina i sogni dell’uomo ed in grado di trasformarsi in una proiezione tangibile al risveglio. In Soderbergh sentiamo fin da subito la voce fuoricampo della donna, mentre le gocce di pioggia scendono sul vetro. Ma come nel suo doppio sovietico, entrerà in scena al risveglio di Kelvin in orbita. Harey/Rheya non è l’unico simulacro capace di frugare tra i pensieri dei personaggi, infatti ognuno vedrà i propri visitatori prendere vita e vagare tra i sentieri di grate, celle siderali e oblò argentati della stazione orbitante. Gli ospiti (figli, mariti, ragazze, nani) si umanizzano con il trascorrere del tempo, facendo perdere l’orientamento al team di astrofisici, rimasti aggrappati ad una vertigine di paradossi e ambiguità.
Nonostante il dolore e la consapevolezza di non poter rivivere il passato, Kelvin rimane fermo, passivamente ancorato ai momenti trascorsi insieme alla moglie. Il blu elettrico ed il violetto lattiginoso del pianeta diventano una massa fumosa, capace di accendere le sinapsi filamentose dei ricordi: i flashback in Tarkovskij ci mostrano anche frammenti dell’infanzia e dei genitori, mentre Soderbergh rende centrale la storia d’amore tra i protagonisti. Tra ragione ed impulsi, isterismo e spettri che ri-appaiono (nonostante i vari tentativi di sbarazzarsene) Kelvin è accecato dall’illusione di portare il suo feticcio sulla terra, riprendendo la vita di prima. Il protagonista vuole avere l’occasione di cancellare uno sbaglio del passato ma allo stesso tempo si lascia manipolare dal suo specchio che si nutre delle sue fragilità: è lui che dà forma a Rheya, facendole provare dei sentimenti (gioria, rabbia, tristezza).
In una realtà sempre più contaminata, la donna sarà messa nelle condizioni di rivelare a Kelvin di non essere quella di cui ha memoria, perché anche lei fa parte di Solaris. Tra problemi etici legati a suicidi e resurrezioni, privazioni, stati d’isolamento e insonnia, il desiderio del ritorno si fa sempre più forte per l’equipaggio. Le apparizioni emerse dall’inconscio, porteranno Kelvin alla presa di coscienza di sé, che secondo Tarkovskij può avvenire solamente nella solitudine dell’individuo, quando niente è dato per scontato. Il mistero che avvolge Solaris è lo specchio della natura dell’uomo: indecifrabile ed infinita, un labirinto di inquietudini che condanna la conquista dell’uomo verso l’ignoto, a plasmare lo spazio a propria immagine e somiglianza, senza però conoscere se stesso.
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