
En Guerre di Stéphane Brizé: un manifesto di lotta trasversale
December 10, 2018“No, non ascolto più.”
Una fabbrica tedesca in Francia decide di chiudere dall’oggi al domani, nonostante il fatturato non sia calato. Il motivo, come spesso accade, è la voglia di delocalizzare il lavoro in Romania o in un altro paese dell’Europa dell’Est dove la manodopera costa cinque volte meno. Di colpo millecento operai perdono il proprio impiego e il contratto firmato, che in linea teorica li avrebbe dovuti tutelare da un’operazione simile, è carta straccia. L’essersi sottoposti per due anni a turni massacranti, concedendo ore ai padroni e rinunciando a una fetta dello stipendio, non è servito a nulla. La decisione imposta dall’alto non viene tuttavia accettata con sottomissione. Nessun capo chino. L’unica risposta è restituire il colpo e guerreggiare, resistere. La strada da percorrere sarà però disseminata di pericoli e rischi.
Per molti è il film dell’anno, per altri è il prodotto cinematografico di cui si sentiva la mancanza nel panorama attuale. En Guerre, ancor prima di essere un manifesto di lotta, è innanzitutto l’elogio del prendere una posizione, del difenderla e mantenerla. A ogni costo. Pure se ci si sente in dovere con se stessi d’immolarsi, di sacrificarsi fino all’annientamento di sé.
Il protagonista (l’attore Vincent Lindon, in veste anche di co-produttore) è un eroe, è un martire. Combatte per sé, combatte per gli altri. Combatte con intelligenza perché adatta la propria strategia in base a come si evolve la situazione. Gli eventi, per lo più avversi, non lo piegano. Come non lo piegano neanche gli attacchi più duri, quelli interni, che provengono dalle sue fila, cioè da chi dovrebbe appoggiarlo incondizionatamente perché lui sta difendendo a spada tratta chiunque sia al suo fianco: un proletariato che vuole solo poter sgobbare sodo, che non chiede nulla di più rispetto a ciò cui ha diritto e che vive solo per la felicità dei propri figli.
Tassi di profitto, gente per strada. “Siamo tutti sulla stessa barca”. Zero aiuti concreti, solo sostegno morale. “La vostra lotta non serve a niente”. Sistema piramidale, l’eterno scarica-barile. “Spostatevi in un’altra regione”. Soldi e merda nelle buste, dirigenti sordi. Muri di gomma. Provocatori, elementi disturbatori, infiltrati. Divergenze, litigi, disunione, scontro d’idee. Collere, promesse. Sbirri corazzati e occupazione. Violenza, ribellione. Colpe addossate.
Le dinamiche di En Guerre possono essere scomposte, così come si può fare anche con i suoi elementi costitutivi. Giusta la vicinanza, notata da molti spettatori e critici, con I compagni, ma la massa di Monicelli, oltre a essere meno istruita per via di quel momento storico (il film è ambientato tra la fine del secolo XIX° e l’inizio di quello successivo), deve fronteggiare un nemico in meno: i media. Sono le emittenti nazionali che danno voce a chi si ribella tanto da rendere una celebrità il leader di quel movimento in una delle ormai poche vittorie della Televisione rispetto all’Internet. Come viene dipinto lo sciopero da parte dei telegiornali? C’è oggettività nel raccontare i fatti per come realmente accadono? Con precisione, in En Guerre, non è dato sapere, ma la bilancia sembra pendere sempre un po’ di più verso chi detiene il potere perché è esattamente ciò che accade nel mondo reale.
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