
TSFF30: Barbara, ovvero l’arte della semplicità
January 22, 2019 0 By Simone TarditiCosta del Mar Baltico, 1980. A est della cortina di ferro, Barbara (Nina Hoss) lavora in un piccolo ospedale di provincia, controllata dalla Stasi e combattuta tra l’amore per il suo fidanzato, che vuole farla fuggire con lui in Danimarca, e André, suo collega medico. L’entrare in contatto con Stella, giovane ragazza incinta, cambierà per sempre la vita di Barbara, la quale dovrà optare per la propria libertà o per l’essere felice.
Barbara, lungometraggio di Christian Petzold, viene riproposto alla trentesima edizione del Trieste Film Festival a una manciata di anni dall’uscita in Italia (nel 2013, con il titolo La scelta di Barbara, ben più di un ammiccamento alla pellicola del 1982 con Meryl “Sophie” Streep). Perché? Nel tracciare un filone tematico sul Muro di Berlino, il TSFF30 ha optato per un’opera relativamente recente capace di mostrare come potesse essere la vita in luogo non solo molto lontano da Berlino, ma dove tutto scorre pressoché serenamente.
Sia chiaro, la minaccia è avvertita costantemente (non mancano spie e perquisizioni), ma Barbara è innanzitutto la storia di una donna solitaria, all’apparenza non bisognosa di nulla, schiva, non abituata alle gentilezze. Se la professione dei protagonisti ha a che fare con il salvare vite umane, è altrettanto vero che a tratti ci si dimentica del pericolo incombente su di loro. Si potrebbe trapiantare la vicenda altrove e funzionerebbe lo stesso, ecco perché la contestualizzazione storica serve all’autore del film solo per orientarsi e far orientare il pubblico. In breve, riducendo Barbara nelle sue parti essenziali rimane il sentimento che lega un uomo a una donna per fare del bene nel mondo e non solo una love story di cui dimenticarsi in fretta. E questo funzionerebbe in qualsiasi epoca.
Barbara è inspiegabilmente affascinante e lo è proprio in virtù della sua semplicità più assoluta. Rispetto a intricatissime sceneggiature maldestre, qui succede ben poco. Ciononostante, tutto procede senza intoppi proprio perché non c’è nulla di superfluo. L’impianto stesso, dal punto di vista cinematografico, è datato. Ci troviamo di fronte a un film fortemente classico, che pare uscito fuori dalla penna di uno scrittore della prima metà del secolo scorso. Questo si riversa anche sulle immagini, si prenda a esempio il finale sulla spiaggia, apice (per modo di dire) della tensione accumulatesi fino a quel momento: la scena notturna è chiaramente girata di giorno, la luce del cielo è ancora forte, con un filtro blu (forse aggiunto in post-produzione, forse collocato di fronte all’obiettivo). Come ai bei vecchi tempi del cinema hollywoodiano in Technicolor e non solo quello.
La scena più bella, però, arriva prima, a circa metà film. Barbara e André osservano la riproduzione di Lezione di anatomia del dottor Tulp, celebre dipinto di Rembrandt. L’arte irrompe in quel mondo ospedaliero (i due si trovano nel laboratorio faticosamente allestito da lui) e li catapulta in un’altra dimensione, atemporale. Il dottore analizza e interpreta il quadro, lei ascolta assorta. Si scambiano opinioni, idee, cioè tutto quel che conduce al progresso. È un attimo di pace in una realtà lontana dall’essere serena, ma non per questo così spaventosa.
Into this world we're thrown".
-Jim Morrison
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