
Il primo re, dialettica di spiritualità e progresso
March 7, 2019Quando nel panorama italiano si sposta il baricentro dall’asse sorrentino-morettiano o dalla giungla laida della commedia spicciola, per (ri)abbracciare più consapevolmente l’architettura del genere, i risultati sono sempre interessanti: Sicilian Ghost Story di Grassadonia/Piazza, Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, Il racconto dei racconti di Matteo Garrone, Suburra di Stefano Sollima, Smetto quando voglio di Sydney Sibilia sono tra i titoli più accattivanti della nuova frontiera del cinema di genere, mescolato alla inevitabile sensibilità dell’attuale contesto socio-politico e infarcito di spasmodico, elettrico desiderio di fare cinema.
In questa cornice, Il primo Re di Matteo Rovere (dopo l’ottimo e adombrato Veloce come il vento) ha quantomeno l’importanza seminale di aver rielaborato il peplum in un’ottica più angosciante, essenziale, densa di presagi e di una spiritualità smarrita per sempre. Ad un piano più storico-superficiale, Il primo Re è il racconto della fondazione di Roma ad opera di Romolo (Alessio Lapice) e Remo (Alessandro Borghi, divenuto ormai icona del cinema capitolino, dai bassifondi della Roma criminale di Suburra all’ottimo, carnale Cucchi in Sulla mia pelle).
Il respiro di questo post peplum è tutt’altro che epico: le sponde del Tevere sono più algide e slavate delle lande vichinghe di Valhalla rising, il presagio della morte s’impone dalle primissime sequenze dell’esondazione, lo sguardo ossessivo della camera sulla implacabile violenza del mondo coniuga l’eleganza della messa in scena col significato, più profondo, di esorcizzare la paura per una natura asettica, respirante, intrisa di divinità (approccio diametralmente opposto alla plasticità di Revenant scimmiottante Malick).
Il discorso sulla spiritualità costringe ad addentrarsi nel piano più profondo dell’opera, che rappresenta, forse, l’unico elemento di reale pregio del film: contaminato dall’irrimediabile realismo col quale il cinema italiano impasta ogni opera, è sorprendente quanto Il primo Re riesca a condurre lo spettatore in un mondo ancestrale, irripetibile, poiché lo sguardo della macchina da presa è lo sguardo della stessa civiltà latina, non preservando alcuna traccia della nostra concezione del mondo. Sembra il prodotto di un’era lontanissima per un’era lontanissima. La spiritualità cristiana, intervenuta già nel corso della dominazione romana, ha contribuito pian piano a modulare la nostra attuale visione delle cose, traghettandoci da una concezione politeista ad una monoteista. Il politeismo, per la civiltà classica, non era solamente un fatto religioso, bensì neuronale, di percorsi di pensiero, una pluralità cucita alla coscienza ed impossibile da staccare.
Ancor prima del politeismo era l’animismo, e i latini de Il primo Re incarnano impeccabilmente quella commistione di concezioni (e di tolleranza, altra caratteristica della duttilità classica): prima ci si riferisce ad un indecifrabile dio, poi subentrano gli dei, poi si regredisce al terrore per la natura, poi ci si riappropria delle divinità del focolare. Il modo stesso di comunicare di questi uomini/aborigeni, una lingua arcaica in cui si fatica a riconoscere il latino (altro elemento realistico di toccante bellezza), è il riflesso di una incerta concezione delle cose, di un uomo che non domina la natura, ne è terrorizzato, non possiede i vocaboli per governare la lingua, e non riesce a discernere tra una spiritualità strutturata e il timore indifferenziato per l’anima posseduta da ogni cosa visibile.
Remo, nel vittorioso condurre la sua gente verso la conquista del Tevere, viene a conoscenza della profezia di una vestale secondo cui uno dei due fratelli sarà il primo re di una nuova civiltà, ma per farlo dovrà ammazzare l’altro. Non accettando l’idea del fratricidio, si oppone alla volontà divina. Remo, in questo senso, rappresenta il progresso, la spregiudicatezza, la ubris nei confronti di un dogmatico dettame. Parrebbe ridicolo dover compiacere una volontà tanto sciocca per un incomprensibile timore verso il dio (in veste diversa, sarà lo stesso timore di Abramo mentre s’approccerà a sacrificare il figlio Isacco), ma non per la civilità classica. Che l’uomo contemporaneo tenda a sbeffeggiare la dimensione spirituale è un dato antropologico limitato, poiché quel timore ha governato le menti fino al recentissimo passato.
Remo, che si concepisce come un coraggioso sovvertitore dell’ordine in nome di un solipsismo assoluto (Remo è, a conti fatti, l’uomo contemporaneo, come lo era il progressista Prometeo, punito dagli dei col supplizio dell’aquila), è per i latini l’oggetto blasfemo da abbattere. E l’opera, fedele allo sguardo arcaico sul mondo, non tenta di giustificare Remo mentre dà a ferro e fuoco il villaggio che lo ha accolto come re, piuttosto lo teme, e lo condanna. Romolo, il custode dei valori tradizionali (o il bigotto, a seconda del punto di vista), è accolto come il vero re della nuova civiltà, ed i presagi di morte che accompagnavano Remo sembrano dissolversi nella rinnovata prospettiva di sacralità.
Che lo si voglia o meno, i Romani erano dei bifolchi (abilissimi strateghi in battaglia, astuti nelle dinamiche di sottomissione dei popoli, ma pur sempre bifolchi), e se gli Ateniesi erano considerati imberbi pensatori al servizio di un deprecabile progresso, loro di certo erano superstiziosi, si divertivano vedendo i gladiatori morire negli anfiteatri e ritenevano Cornelio Silla un volgare rivoluzionario perché beveva il vino non annacquato. Roma, quindi, è nata nella superstizione e nel timore per gli dei (il motore di tutta, o quasi, la civiltà umana), e l’opera di Matteo Rovere, con eleganza e straordinaria modestia, ricostruisce alla perfezione l’incanto di quell’immaginario mentale.
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