
J. Edgar di Eastwood come maschera mortuaria del cinema
March 18, 2019“When morals decline and good men do nothing, evil flourishes”
Il 1919, le procedure investigative ancora impacciate, le prove confuse, gli indizi non colti, la linea di demarcazione tra eroi e despoti, la lotta agli anarchici e i comunisti, le deportazioni e i raid armati, gli attentati terroristici, lo scambio di biglietti da visita, la death mask di Dillinger, la fiducia e la paranoia, il Potus spaventato dalle invasioni esterne, l’esultare per aver mandato una persona sulla sedia elettrica eppure professarsi migliori degli assassini, la disintegrazione di documenti sensibili, l’essere corrotti dal potere.
Cosa non ha funzionato col J. Edgar di Clint Eastwood? Fuori tempo? Perché ha fallito, sempre che l’abbia fatto? Assemblare un film su quello che è stato uno dei personaggi più influenti del Novecento americano è un’operazione rischiosa a monte e a prescindere dal risultato raggiunto, pertanto finire con il non trattare la biografia di Hoover con le pinze, ma anzi dipingere la sua figura dandole sembianze da spregevole mostro tentacolare, è stato tanto un passo falso quanto l’unico giusto da fare. A volte bisogna dare fastidio. Per dire, la distruzione dell’immagine pubblica che il regista compie nei confronti di un così illustre personaggio è non dissimile da quella operata da Paolo Sorrentino in Il Divo. Mettendo da parte tutto ciò, quel che in J. Edgar rimane è una meditazione sul cinema denudato da ogni abbellimento estetico.
Il cinema come arma, un’arma non nelle mani di Eastwood (che si limita a mostrarne l’affilatura) bensì di Hoover (che se ne serve per fare propaganda dagli anni ’30 a tutti i ‘50). Seccato dal fatto che il pubblico statunitense dei gangster movie simpatizzasse per i criminali piuttosto che per le forze di polizia, a partire dal 1935 il capo dell’FBI decide di ribaltare i gusti degli spettatori e l’affetto che essi provavano per i protagonisti di quel genere di storie: il film“G” Men (basato su fatti realmente avvenuti, diventa La pattuglia dei senza paura nella fascista distribuzione italiana) è l’emblema di questa inversione di rotta, con la glorificazione assoluta degli uomini di legge impegnati a combattere la delinquenza in ogni sua forma. Il fatto che l’interprete principale sia James Cagney, già antieroe in Nemico pubblico qualche anno addietro, è la ciliegina su una torta impastata con paradossi e droganti dosi di presunta moralità.
Sullo schermo, la violenza viene edulcorata e le armi da fuoco dei malviventi non vengono scelte col criterio del realismo per paura che i giovani, usciti dalla sala, volessero acquistarne una replica e con essa andare a commettere reati. Hoover in prima persona lavora alla sceneggiatura, l’affina secondo la propria visione su ciò che va rappresentato e impone alla casa di produzione (la Warner) d’impiegare sul set degli agenti a lui vicini per monitorare la realizzazione, scena per scena. Costui fa la stessa identica cosa anche nel 1959 per la pellicola The FBI Story, interpretato dal reduce James Stewart, attore di ruoli votati all’onestà e giustizia (sicuramente più di Cagney), e diretto -udite udite- da Mervyn LeRoy, il cui Piccolo Cesare del 1930 aveva inaugurato il filone proseguito da Nemico pubblico e Scarface (quello del ’32).
Come un film è il frutto del lavoro di un cineasta, l’unica creazione di Hoover, scapolo e senza figli, è l’FBI. Eastwood parte da qui, mostrando quanto fasulla sia l’esistenza di questo individuo che non ha voluto altro che stare sotto i riflettori e che ha riscritto le proprie gesta ingigantendole con menzogne; alla base di J. Edgar, un concetto si erge su tutti gli altri: quello della Fedeltà, che si manifesta sia in chi circonda il protagonista sia in chi su di lui ha fatto un lungometraggio rinunciando a scolpire un monumento e preferendo sottolinearne le brutture.
È con tenerezza che Eastwood fa entrare in scena le auto d’epoca modello Ford e le mitragliette Thompson, ma il suo J. Edgar è rileggibile anche come lo svelamento, intriso di amarezza, di un cinema che non può offrire quasi più nulla e la cui “macchina” organizzativa è più fasulla dei film stessi. Riferendosi al mondo patinato di Hollywood, nel romanzo Ho sposato un comunista Philip Roth descrive i registi come “tiranni” e i produttori come “filistei” ed è l’unica realtà rimasta immutata dall’anno zero a oggi. Prima si viene a patti con questa simmetria, meglio è. Dopo che è stato raggiunto, il sogno americano va seppellito e lasciato marcire sotto terra. Coi vermi si banchetterà.
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