
Cosa aspettarsi da J’accuse di Roman Polanski
April 2, 2019Alla fine del 2019 uscirà in Francia J’Accuse, il film di Roman Polanski sul caso Dreyfus e sulle relative indagini condotte dal colonnello Georges Picquart. L’attesa è molta per due diversi motivi. Il primo è che si tratta di una grande co-produzione europea (tra i finanziatori figura anche l’Italia) all’altezza di uno dei maggiori cineasti viventi, dopo tanto tempo e dopo una serie di film non a elevatissimo budget (Carnage, Venere in pelliccia, Quello che non so di lei). Il secondo è doppiamente collegabile a quello appena esposto: J’accuse è fin d’ora il lungometraggio più importante del regista dai tempi di Il pianista, sia in termini realizzativi sia per quanto concerne l’argomento narrato: l’antisemitismo.
Progetto di lunga gestazione (se ne parla dal 2013, con un emblematico titolo provvisorio: D.), J’Accuse è l’adattamento cinematografico del libro L’ufficiale e la spia di Robert Harris, autore da cui Polanski ha già tratto nel 2010 L’uomo nell’ombra. Scenario di gran parte del film sarà la Parigi a cavallo tra Ottocento e Novecento: l’incipit del romanzo (edito da Mondadori) è una rarefatta cartolina, anticipatrice dell’incubo giudiziario che vedrà coinvolto l’innocente Dreyfus, la Francia, l’Europa (“il giardino innevato, avvolto dal silenzio nel centro di una città, una mattina d’inverno”). Il tono cambia giusto due pagine dopo (“il desiderio di assistere all’umiliazione inflitta a un altro essere umano è sempre un adeguato rimedio anche contro il freddo più intenso”) ed è l’inizio di un percorso investigativo della durata di anni, un viaggio che Picquart affronta senza temere di farsi più nemici che alleati e nonostante venga messa a dura prova la sua stessa sopravvivenza. Il tutto, letteralmente tra mari e monti, varcando frontiere e culture, agendo inosservato, camuffandosi e mimetizzandosi, trovando rifugi occasionali e guardandosi costantemente le spalle. Il tutto, poi, per cosa? Per far trionfare la verità e basta? Per provare a rovesciare un organigramma corrotto, in un’epoca in cui l’attaccamento agli ideali vale più della stessa vita ed è un’illusione irrinunciabile?
L’avventura di Picquart avviene all’alba di un mondo nuovo, di un’età che si avvia alla sua naturale fine e di una che sta per cominciare. Le strade della capitale francese puzzano ancora di merda e vengono illuminate da lampioni a gas, ma si stanno diffondendo mode bizzarre come spiritismo, occultismo, chiromanzia e l’assenzio va ancora forte. La decadenza. I cieli sono percorsi in ogni direzione da piccioni viaggiatori che compiono attività sovversive trasportando messaggi segreti. Le menti dell’élite sono ancora corrotte dall’antropometria lombrosiana mentre, a casa, i loro corpi vengono coperti da vestaglie di seta rossa con draghi cinesi (una moda). Quando, finalmente, c’è il processo a Rennes, è il 1899 e in J’Accuse vengono descritti degli operatori speranzosi d’immortalare Dreyfus con le loro cineprese. Non succederà, ma nulla più del cinema può dare l’idea di un’era che si chiude e di una che si è ormai aperta.
Leggendo il libro, è facile immaginarsi elementi e piccoli episodi della filmografia di Polanski: dall’indagine pericolosa che il protagonista porta avanti e a causa della quale, come in Chinatown, rischierà di perdere la vita in più di un’occasione, ma anche un duello di scherma che rievoca quello a colpi di spada in Macbeth, la rinuncia del proprio pianoforte (ovviamente, Il pianista), il terrore di venire ucciso in mare aperto (L’uomo nell’ombra). Sono però ancor maggiori le analogie con il vissuto del regista: la carcerazione, l’esilio in terra straniera, il dover leggere eventi biografici travisati dalla stampa solo per un fine sensazionalistico (“Quando appaio in pubblico la gente mi fischia, vengo diffamato da vari giornali …”), gli incontri segreti, i pedinamenti e le precauzioni per non farsi seguire, le congiure, la paranoia di venir ucciso (un omicidio può facilmente essere fatto passare per suicidio), il rendersi conto di essere controllato, intercettato, tenuto sotto scacco, minacciato, censurato.
Che sia coinvolto Picquart o Dreyfus (la narrazione gioca molto su ciò che unisce i due), gran parte delle azioni e delle sensazioni appena elencate possono essere tranquillamente copia-incollate sul Polanski post-scandalo Geimer (correva il 1977-78), soprattutto per quel che riguarda il rapporto con l’orchestrazione politico-giornalistica nel creare un mostro da dare in pasto alla gente, la gogna mediatica. Se al centro di J’Accuse c’è l’incolpevolezza del personaggio principale, lo stesso non si può dire per chi ha diretto il film. Il punto, tuttavia, è anche un altro: il popolo ha sempre bisogno di un capro espiatorio e l’innocenza non a tutti interessa.
“I romani davano i cristiani in pasto ai leoni, noi gli diamo gli ebrei. È un progresso, suppongo”, si legge nelle pagine di Harris. Raccontare il caso Dreyfus ha oggi un valore particolare. L’ondata neonazista / nazionalista che sta invadendo i governi occidentali non è inaspettata, anche se la si pensava per sempre scongiurata dopo il 1945. Le crisi, purtroppo, portano a galla non solo gli stessi problemi, ma pure le medesime dinamiche nell’affrontarli e l’odio verso il diverso è una costante nella storia dell’umanità. Pertanto, l’affezionamento di Polanski nei confronti di questa vicenda è trasversale: egli stesso è un ebreo miracolosamente sfuggito da bambino all’Olocausto, sorta salvifica che non è stata la stessa di parte della sua famiglia finita nei campi di concentramento, ed egli stesso è finito sulla bocca di tutti per un reato (commesso per davvero), venendo gettato nelle fauci dell’indignazione generale. Lo stigma è destinato ad accompagnarlo per l’eternità, anche quando sarà morto.
11 citazioni sparse dal romanzo:
“La cronaca è corredata da una serie di rozze vignette”.
“Per indole ho sempre preferito concedermi qualche piccolo lusso piuttosto che sguazzare nella mediocrità; tiro avanti alla meno peggio”.
“Lo spionaggio era la nuova prima linea contro il nemico”.
“Da lontano i rumori di Parigi giungono attutiti, come un ronzio di api”.
“Ognuno sospettava dell’altro. Furono rivangate e riesumate vecchie storie, ripresero vigore annose dicerie e si ravvivarono antiche faide”.
“Al giorno d’oggi, con la fotografia, il telegrafo, le ferrovie, i giornali, i segreti non esistono più. Sono finiti i tempi in cui chi apparteneva a circoli esclusivi e condivideva le stesse opinioni comunicava scrivendo su pergamena con la sua brava penna d’oca”.
“Ora sono convinto che a volte nei gialli c’è più verità che in tutto il realismo sociale di monsieur Zola”.
“Facciamo l’amore nella stanza dei bambini, sotto lo sguardo attento di una fila di vecchi soldatini di mio nipote”.
“Nell’oscurità i cumuli d’immondizia sembrano animati, frusciano come creature viventi, e mentre ci passiamo davanti scorgo dei topi dal dorso bruno e lustro che sgusciano fra resti di cibo marcio”.
“Mi sembra di essere precipitato nel pozzo di una miniera da cui sia impossibile risalire”.
“Mi rifiuto di rilasciare dichiarazioni ai giornalisti radunati sul marciapiede”.
- TFF41: Decapitando (in gloria) Kubi di Takeshi Kitano - December 4, 2023
- Some Shooter, quel film muto contenuto in Killers of the Flower Moon - November 24, 2023
- Soffiando sulle vele di Master & Commander, pensando a The Wager - November 16, 2023