
Takara – La notte che ho nuotato, tra haiku e cinema muto
May 16, 2019Fuori dalla finestra una bufera di neve, le scale apparentemente più ripide di quello che realmente sono, l’ingresso inquadrato in modalità pillow shot, uno zippo con disegnato un marlin, un uomo che fuma nella notte, il rumore di un frigorifero che ha ormai sostituito quello della neve. Il silenzioso incipit di Takara – La notte che ho nuotato (una delle esclusive di Venezia74, dal 23 maggio nelle sale italiane grazie alla Tycoon Distribution) anticipa nel contenuto e nella forma il proseguo del film: splendore minimale, assenza di dialoghi, una ninna-nanna che più nipponica non si potrebbe.
Diviso in tre capitoli (Il disegno / Il mercato del pesce / Un lungo sonno), Takara – La notte che ho nuotato segue le vicissitudini affrontate dal bambino protagonista nell’andare all’avanscoperta dei luoghi che separano la sua casa da dove lavora il padre. Dall’intrattenersi da solo (fotografando dei dinosauri illuminando a giorno la sua cameretta con il flash, trascorrendo insonne le ore prima dell’alba finendo l’indomani con il non avere le forze per andare a scuola) allo scoprire il mondo girovagando per la città, il piccolo ha di instancabile la sua fantasia: è così che, per esempio, una stalattite di ghiaccio può diventare una spada laser oppure una mazza da baseball (qualcosa di simile, sul potere dell’immaginazione, lo si può trovare nel cortometraggio d’animazione Cat Days).
In perfetto bilico tra la cinematografia di Yasujiro Ozu (Good Morning, ma anche I was born, but …) e quella più recente di Hirokazu Kore’eda (Nobody Knows, Father and Son), anche il film del duo Kohei Igarashi – Damien Manivel concentra tutta la sua narrazione attorno alla figura di un non-ancora-adulto, grazie alla cui tenera età è forte la componente del gioco: l’anima del personaggio principale non è ancora corrotta dalla tecnologia e si diverte letteralmente col nulla. Il Nulla che è anche, nella concezione giapponese, una conquista da raggiungere in età adulta ed ecco che i poli del percorso di crescita acquistano un senso compiuto quando padre e figlio si ritrovano e trascorrono vicini tra di loro qualche istante, dormendo (i due, a causa della professione del genitore, non possono trascorrere altro tempo insieme).
Nella sua assoluta semplicità, Takara – La notte che ho nuotato è un haiku di sole immagini, senza parole, ma con dei versi. Praticamente un film muto fatto ai giorni nostri e perciò, in quanto tale, qualcosa di straordinario. Non si riesce a smettere di guardarlo.
- Le palle d’acciaio di The Caine Mutiny Court-Martial - September 11, 2023
- Appunti sparsi su Crimini e misfatti - September 8, 2023
- Quell’unica volta in cui Douglas Sirk si diede al genere western - August 29, 2023