
Il Cinema Ritrovato 2019: Jesse James di Henry King, eleganza e crudeltà
June 29, 2019“We live like animals. Scared animals. We move. We hide. We don’t dare to go out. All day and all night we just sit, scared of a shadow on a window. Scared of a footstep on a porch. Scared of a door opening.”
Dei numerosi adattamenti per il grande schermo sulla figura di Jesse James, personaggio sospeso tra leggenda e verità storica, si ricordano soprattutto quelli diretti da Nicholas Ray, Samuel Fuller, Joseph Kane, Budd Boetticher, senza dimenticare Andrew Dominik. Tuttavia il Jesse James di Henry King, riproposto in tutta la sua gloria alla 33ma edizione del bolognese Cinema Ritrovato, si ritaglia uno spazio privilegiato per la modalità con cui l’arcinota vicenda del fuorilegge è stata raccontata.
Da un lato i ricatti, le minacce, la prepotenza dei bruti che scacciano dalle loro abitazioni i proprietari di terreni dove passerà la ferrovia che unirà l’America da una costa all’altra, dall’altro la resistenza contro questi soprusi che si evolve in una spirale di violenza in grado di coinvolgere un’intera comunità. Il contesto all’interno del quale i protagonisti si trasformano da piccoli criminali a conclamati banditi, è questo.
Interessante è però un fattore: nel film di King le rapine (tranne quella al treno) sono in linea di massima relegate a trafiletti di giornale mostrati in dissolvenza mentre scorrono immagini di cavalli al galoppo. Azione e notizie. In pratica, i furti di denaro diventano un mero contorno rispetto a quel che invece il regista è maggiormente legato, ossia l’ambientazione rurale dove si sviluppa la non serena love story tra Jesse e Zerelda.
Non è una novità questa sua predilezione per le campagne americane: lo si è già visto nel 1921 con Tol’able David oppure in La mia terra (1959) e ancor prima in I’d Climb the Highest Mountain (La collina della felicità, 1951). E lo si vede anche in Maryland, uscito un anno esatto dopo a Jesse James, che con quest’ultimo condivide un elemento non comunissimo nel cinema dell’epoca: un’integrazione tra bianchi padroni e neri asserviti che, se ancora evidente (e gli stereotipi ovviamente non mancano), lascia intravedere i primi spiragli di un cambiamento post-databile. Nello specifico, il personaggio di Pinkie (interpretato dall’attore afroamericano Ernest Whitman, il quale tornerà anche nel sequel diretto da Fritz Lang: The Return of Frank James, 1940) viene trattato quasi come fosse un membro della famiglia / della gang dei fratelli James e non solo come una persona a cui impartire ordini.
La storia d’amore, per contro, è quanto più desueta e venata di romanticismo, tale da renderla per certi versi “fuori luogo” rispetto al genere nel quale viene fatta inserire. In realtà, si rivela come una carta vincente. Tutto il film può essere riletto attraverso lo sguardo della consorte di Jesse James, una donna che accetta di non avere una vita normale dove possa regnare la stabilità quotidiana, di non poter disporre di certezze, di attendere e attendere in eterno l’uomo che ama, di aspettare un ritorno che non sarà mai annunciato. Una condizione insopportabile e che porterà con sé delle conseguenze.
Henry King riesce quindi nell’impresa di dare al genere western un’aura di eleganza invece che di rozzezza, e ciò accade esattamente lo stesso anno in cui John Ford realizza Ombre rosse. Per farla breve, entrambi i film (a cui si può aggiungere anche il classico per eccellenza che esce contemporaneamente nelle sale, Via col vento) riconquistano una fetta di pubblico che, parallelamente al tramonto dell’epoca del muto, si era allontanato sempre più dai western e a causa di ciò anche i produttori, salvo qualche caso –Il grande sentiero (1930) di Raoul Walsh, per fare un esempio- avevano smesso d’investire grandi budget per quel tipo di pellicole. I film di cowboy e pellerossa diventano roba di serie B o C, e solo dal 1939 in avanti ci sarà un graduale cambiamento della situazione che via via, piuttosto rapidamente, darà inizio alla grande stagione compresa tra gli anni ’40 e ’50: dal bianco e nero e il 4:3, al Technicolor e CinemaScope. Tutto ciò è ovviamente una semplificazione volta a ridurre tutta la questione a quattro concetti in croce, la materia è più complessa.
Infine, ogni storia ha le sue pagine buie, spesso però un male riconosciuto può impedire almeno in linea teorica il sopraggiungere di mali futuri e più grandi. Dopo un abbondante trentennio di sfruttamento di animali sui set, dopo Jesse James le cose migliorano e il film in qualche modo fa da spartiacque: uno stunt pericoloso compiuto facendo lanciare da una scogliera dei cavalli con gli occhi bendati viene giudicato un’inutile crudeltà perpetrata solo per essere spettacolarizzata ai fini cinematografici. Da quel momento, viene imposta la presenza di almeno un membro di quella che sarebbe diventata la Humane Society of America durante le riprese di ogni produzione hollywoodiana. Sia chiaro, questa è una soluzione che tampona e argina un massacro senza poterlo risolvere totalmente, ma come ogni soluzione parziale è l’inizio di un progresso che decennio dopo decennio porterà il numero di animali uccisi a coincidere con una cifra sempre più bassa.
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