
A prova di morte: le fanciulle in fiore (d’acciaio) di Tarantino
July 2, 2019“Non sono un cowboy, Pam, sono uno stuntman. Ma è un errore molto facile da commettere.”
Uno strano film, poco conosciuto, poco frequentato e snobbato persino. Una storia circolare, benché scissa in due episodi, in cui ad essere protagoniste, ed eroine, sono le donne. Bellissime, sexy, spiritose cameratesche, spregiudicate e romantiche le protagoniste di A prova di morte sono il dolcificante che rende godibile un film volutamente violentissimo e brutale, forse il più maledetto e in fondo oscuro tra quelli girati da Quentin Tarantino. Una prima parte, ambientata ad Austin (Texas), notturna, statica e bagnata da una pioggia battente che magicamente smette di cadere poco prima del tragico terrificante epilogo e un secondo segmento, illuminato dal sole cocente delle strade di Lebanon (Tennessee) 14 mesi dopo, quasi interamente caratterizzato da un inseguimento automobilistico che sa più di Far West che dei B Movie a cui il film rende omaggio.
L’elemento maschile, unico del suo genere ad accezione di un pugno di personaggi marginali (interpretati fra gli altri dallo stesso Tarantino e dal college Eli Roth) che fanno la loro breve comparsa nella prima parte, è probabilmente il villain più spregevole mai comparso nella filmografia del regista di Once Upon a Time in Hollywood.
Stuntman Mike (Kurt Russell) ci viene presentato come un tipo simpatico, interessante. Forse per via della sua insolita professione, quella di controfigura specializzata in acrobazie sulle quattro ruote, del suo look retrò con capelli pettinati a coda di rondine e giubbotto argentato, della conversazione tutto sommato piacevole e dei modi rudemente cavallereschi che sfoggia con le giovani protagoniste della parte iniziale. Ma quest’uomo di mezza età che spia le ragazze chiuso nell’abitacolo della sua terrificante autovettura nera si rivela presto come uno spietato serial killer che, dopo aver scelto meticolosamente le sue vittime, le coinvolge in orribili incidenti stradali nei quali egli sa che resterà quasi del tutto incolume proprio per le particolari caratteristiche della sua macchina (la sua arma) che è, appunto, a prova di morte.
Una trama orribile a tutta prima, piena di sadismo e sessismo, per cui probabilmente oggigiorno Quentin Tarantino verrebbe crocefisso mediaticamente e senza appello, specie dopo le pesanti accuse lanciategli da Uma Thurman nel maggio 2018[1].
Fermo restando che A prova di morte beneficia di quella speciale “patina anti polvere” (fatta di una regia impeccabile unita ad astutissime intuizioni e a uno dei suoi di post produzione più riusciti) che rende tutte le pellicole tarantiniane impermeabili al trascorrere del tempo, è indubbio che il film sia stato girato in un’epoca ormai lontana (2007). Forse un tempo in cui era ancora permesso o, sarebbe meglio dire tollerato, il gioco pesante, il rischio e la provocazione senza l’incombere di hashtag e reprimenda social, ma questa è un’altra storia.
Cosa rende non solo tollerabile ma anche godibile la barbarie di questa insolita storia ambientata in un’America provinciale e remota? Niente altro che una sincera ed empatica celebrazione di una femminilità rude ma irresistibile che rivendica tutti quei diritti che, nel cinema d’azione, sono appannaggio dei maschi. Le ragazze di A prova di morte si divertono, bevono, provocano e vivono con passione e prepotenza. Sembrano più orientate verso la sorellanza che l’amore e usano la loro prorompente sessualità con una certa parsimonia, quasi più allenandola che mettendola in pratica. Sono donne e allo stesso tempo bambine, possono fare dei capricci ma dimostrare, al momento giusto, un coraggio da leoni.
È un’opera difficile da leggere e considerare oggi. Più longevo probabilmente è stato il successo di Planet Terror (ottima pellicola firmata da Robert Rodriguez uscita insieme ad A prova di morte come facente parte del medesimo progetto Grindhouse) che beneficia del più che meritato diritto di classificarsi nel genere horror, anche se si tratta piuttosto di una sofisticatissima commedia nera, e della presenza di un cast senza dubbio più referenziato di quello di A prova di morte.
Chi sono infatti, insieme a un Kurt Russell in una forma a dir poco strepitosa, le ragazze schierate da Tarantino nel suo film con il più alto numero di presenze femminili? Benché nessuna di loro abbia in seguito conosciuto una folgorante fortuna nel cinema mainstream la scelta del casting è stata compiuta non senza una accurata riflessione pregressa.
Per Sydney Tamiia Poitier, figlia del ben più noto Sidney, quella in A prova di morte rimane ad adesso pressoché l’unica apparizione di rilievo. Sinuosa ed esplosiva, con un corpo e dei lunghi capelli che non possono non far pensare al look di Pam Grier (amatissima attrice di B movie che Tarantino volle come protagonista in Jackie Brown), Poitier interpreta la DJ Jungle Julia nel primo segmento del film. Forse uno dei personaggi meno simpatici, con l’aria da sbruffona e la prepotente fisicità esibita in realtà nasconde un invaghimento non corrisposto per un misterioso regista che non compare mai, ma con cui scambia degli sms, è sicuramente la più bella, la più desiderata ma anche la più inavvicinabile. Talmente inaccessibile da non suscitare nemmeno l’interesse di Stuntman Mike più attratto dall’amica Butterfly. Vanessa Ferlito, bellezza meno convenzionale ma non per questo priva di grande, e a tratti animalesca, sensualità è Butterfly appunto: l’outsider, la ragazza venuta da fuori che sembrerebbe destinata a una subordinazione rispetto all’amica Julia, venerata e anche un po’ temuta nella provinciale Austin. È su di lei che si accentrano le attenzioni del sadico Mike che con la ragazza instaura l’unico suo vero contatto ravvicinato non violento attraverso una lap dance in cui la ragazza lo coinvolge dovendo pagare una sorta di pegno per uno scherzo ordito ai suoi danni dall’amica Julia. A nulla servirà quell’avvicinamento, Mike non dimostra nessuna pietà né per lei né per nessun’altra delle sue vittime.
Nel secondo segmento di film, dopo lo sbalzo temporale di 14 mesi e quello geografico che sposta l’azione dal Texas al Tennessee, protagonista assoluta del gruppo di ragazze (anche loro, come Butterfly, tutte di passaggio poiché impiegate di una troupe cinematografica nella zona per delle riprese) è Abernathy interpretata da Rosario Dawson. La bella e talentuosa attrice di origini portoricane si trova nel 2007 all’apice della sua carriera dopo le partecipazioni a La 25esima ora, Sin City e Alexander e decide di offrire a Quentin Tarantino tutto il suo carisma e la sua verve accantonando la sensualità. Abernathy è una tipa tosta, anche se meno spericolata delle sue amiche, una party girl con un look più sofisticato dei jeans e t-shirt sfoggiati dalle altre (impossibile non paragonare il suo taglio di capelli alla parrucca indossata da Uma Thurman in Pulp Fiction). Ed è ancora una volta la outsider ad attirare l’indesiderata attenzione di Stuntman Mike che se nel Texas aveva notato le gambe toniche e tornite di Butterfly, a Lebanon è colpito dagli affusolati piedi nudi di Abernathy che sporgono dal finestrino dell’auto della sua amica Kim parcheggiata fuori da un fast food.
Nella fase finale del film Tarantino decide inoltre di rendere omaggio ad una delle sue più care amiche e preziose collaboratrici dai tempi di Kill Bill. La vera stuntwoman Zoë Bell è chiamata infatti ad interpretare il ruolo di se stessa. Arrivata a Lebanon con lo scopo di trascorrere un week end con le amiche finisce per essere protagonista di una magistrale scena in cui si contorce come una gatta sul cofano di una macchina durante tutto l’inseguimento con Stuntman Mike dando prova di una abilità e un controllo del copro quasi sovrumani.
Se A prova di morte conclude la prima metà della sua narrazione con una scena brutale e raccapricciante che destabilizza la sensibilità dello spettatore, nel suo finale rovescia l’azione facendo trionfare le ragazze che, oltre che a vendicarsi per ciò che lo spregevole stuntman ha fatto loro, rendono inconsapevolmente omaggio alle loro sorelle mai conosciute che hanno avuto un ben altro tragico destino. La scazzottata finale con il maturo cattivo accerchiato dalle tre bellissime amazzoni che ne fanno poltiglia è divertente, catartica e ristoratrice.
Più che un film femminista (non prendiamoci in giro, Quentin Tarantino non è femminista come probabilmente non lo è nessun regista uomo di film d’azione) è un film femminile dove il concetto, al giorno d’oggi orrendamente espresso con il termine “girl power” è espresso alla massima potenza e con tutta la brillantezza e l’energia che nessun sbiadito e scontato film di super eroine confezionato su misura sulla stella o sulla starlette del momento riuscirà mai ad avere.
[1] Nel Febbraio 2018 in pieno periodo #MeToo Uma Thurman rilascia al New York Times una intervista in cui racconta di come sul set di Kill Bill Quentin Tarantino non si sarebbe sufficientemente preoccupato della sua sicurezza durante la ripresa di una corsa in auto per l’appunto. Il regista replica poco dopo affermando “Averle fatto interpretare quella scena senza stunt è il più grande rimorso che ho”.
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