
Venezia76: La Vérité, ritratto di famiglia in interni
August 28, 2019Fabienne Dangeville è stata la più grande attrice in Francia e un po’ lo è ancora. Di sicuro, invecchiando non ha perso la sua snobbaggine, altezzosità, placida arroganza. Ha scritto un’autobiografia piena di falsità e ne attende le prime copie stampate più dell’arrivo della figlia che non vede da anni. Nelle mani ha sempre un bicchiere pieno d’alcol, tra le dita una sigaretta accesa. Agli occhi ingenui di una bambina si fa passare per avvenente strega dai poteri magici.
Avrebbe dovuto recitare per Alfred Hitchcock, ma questi è morto poco prima che iniziassero le riprese (un riferimento a The Short Night?). Ha rubato alla rivale il ruolo più importante della sua carriera andando a letto con il regista. Vive ripensando ai bei momenti andati e che non torneranno più. Celebrità a parte, Fabienne è un’anziana donna sola perché non è stata capace di curarsi di coloro che le sono stati attorno, neppure di sua figlia.
Consacrato l’anno scorso con la Palma d’oro, Hirokazu Kore’eda in questo momento non è solo il nome più importante nel cinema giapponese, ma uno dei più sensibili cineasti viventi sul piano internazionale. Una constatazione banale, forse, ma necessaria per iniziare a parlare di La Vérité, il titolo scelto per l’apertura della settantaseiesima Mostra del Cinema di Venezia.
Necessaria perché è il primo lavoro di Kore’eda fuori dalla terra natìa, perché il primo ad avvalersi di attori non nipponici, ma non perché radicalmente lontano dalle precedenti regie. Tutt’altro. La Vérité ritorna sui sentieri cari al film-maker e alla schiera sempre più fitta di spettatori che seguono ogni orma lasciata a terra, come foglie cadute al suolo, pellicola dopo pellicola: lo sviluppo inter-stagionale, l’idea di una famiglia allargata e senza per forza legami di sangue, l’incapacità comunicativa tra genitori e figli (per altro qui filtrata attraverso la figura di una nipote), il tema della memoria per il quale ci si ricorda solo ciò che il cervello non cancella o quel che si preferisce ricordare (Without Memory, documentario televisivo del 1996, ne è l’antecedente principale, ma anche The Third Murder tratta la questione del dimenticare).
E, al contempo, non sarebbe onesto dire che Kore’eda avrebbe potuto dirigere lo stesso film con un cast proveniente dal Giappone.
La Vérité non avrebbe altro modo di esistere se non attraverso un’interprete come Catherine Deneuve, la quale -piaccia o meno- è il cinema francese degli ultimi sessant’anni. L’immagine da star leggendaria viene usata nella maniera più utile ai fini del racconto: un’attrice che interpreta se stessa, ingigantendo i lati più negativi, i difetti più insopportabili, la vacuità della propria anima che è incapace di far convivere il proprio mestiere di recitare con quello di vivere (l’amore e la sofferenza, messi da parte per far spazio a stupide ossessioni di apparire o recitare meglio, ma vengono utilizzati da lei per riuscire a riproporre finte emozioni quando si trova davanti alla macchina da presa in un set asettico). Una star nella forma più pura: immateriale, intoccabile, di cui si può solo vederne lo sbrilluccichìo.
Un film profondamente femminile La Vérité, dove l’Uomo conta molto poco ed è tenuto ai margini. Ed è la narrazione a richiedere, pretendere ciò, in quell’equilibrio perfetto tra battute pronunciate e immagini mostrate a cui Kore’eda ci ha abituato da Still Walking in avanti. Ma anche un film fatto più nuche capellute che di volti perché, come dice Fabienne, l’importante è la presenza, l’aura.
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