
Perché Goodfellas è la quintessenza del cinema gangster
October 11, 2019Scorsesiano. Per molti, per alcuni, ma non per tutti, non appena sentiamo questa parola l’associamo subito a Goodfellas. Non che prima del 1990 Martin Scorsese non avesse definito ancora un suo stile preciso, leggibile e identificabile. Anzi gli si farebbe un torto a pensarla così, visto che aveva già regalato alla storia del cinema capolavori come Mean Streets, Taxi Driver, New York, New York, Raging Bull, After Hours e qualche anno prima The last temptation of Christ (anche se per quest’ultimo passeranno degli anni prima di riconoscerne la grandezza). Pure The Big Shave si può già considerare scorsesiano. Se però pensiamo a tutto quello che viene dopo Goodfellas, già dal seguente Casinò, fino a Gangs of New York, da The Departed fino all’eccessivo The Wolf of Wall Street, non possiamo far altro che pensare alla paterna ossatura tematica, drammatica e stilistica che esplode con questo capolavoro di inizio anni 90. Goodfellas è la foce autoriale dove confluiscono i vari corsi precedenti di fine anni ’60, dei fondamentali anni ’70 e poi dei già più ambiziosi anni ’80, e dal quale si espande poi tutta l’oceanica produzione scorsesiana dagli anni ’90 fino a oggi, o fino domani, con la prossima uscita di The Irishman.
Perché? Perché potremmo liberamente leggere nella prima battuta del protagonista una dichiarazione poetica: “Che io mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster”. Rispetto alla lingua originale, la traduzione italiana ci permette di leggere il fare il gangster in due accezioni: non solo come lo intende il protagonista ovvero fare il “mafioso”, ma anche come lo intende il suo regista, ovvero un fare il cinema gangster. E a Scorsese è venuto dannatamente bene.
Perché Goodfellas è la sinfonia fantastica di Scorsese, un’idea di cinema e di musica che rende il film qualcosa di mai visto prima. Ogni scelta di montaggio, ogni movimento di regia, ogni attore, costume o musica vanno a seguire una partitura precisa, libera e imprevedibile. Non c’è spazio per le grandi epopee di Coppola o Leone, oppure per il gioco postmoderno e citazionista affrontato qualche anno prima da Brian De Palma con Untouchables, perché Goodfellas è qualcosa che risponde precisamente all’idea di cinema del suo autore.
Si ripercorre pur sempre un pezzo di storia americana, dagli anni ’50 agli anni ’80, ma a parte le didascalie per darci qualche coordinata temporale, con qualche costume e abitudine indicativi di certi anni, il mondo dei gangster di Scorsese è alieno ai grandi eventi storici. L’unico dato rilevante è la presenza della cocaina, che già ribaltava il codice politico-economico della famiglia Corleone, e qui viene vista dal basso, la si osserva distrattamente mentre si insinua silenziosamente nel quotidiano di questi gangster, essa non diventa mai oggetto di uno sguardo storico e politico, è solo una intrusa che Henry si mette nel naso troppe volte prima che Paulie, boss e figura paterna, gli dica “Te lo avevo detto”.
Per il resto rimane solo questo microcosmo di culture, scenette familiari e passi falsi, questa vita che Henry ha deciso tanto di abbracciare e che sua moglie Karen seguirà fino alla fine. Il film diventa una ballata che si scandisce tramite l’incontro/scontro tra la voce maschile di Henry e quella femminile di Karen, sua moglie, che ci guidano in questa scoppiettante macchina cinema. O Macchina Scorsese potremmo chiamarla, come suggerisce il titolo di una delle puntate della docuserie Cinema de notre temps, in cui si segue il regista al lavoro sulla preproduzione di Goodfellas. La macchina di Scorsese si muove indiavolata dentro questo inferno dove ogni legge sembra essere ignorata, dove ogni codice morale si declina in una quotidiana pulsione di violenza che guida e detta le regole di un mondo che vediamo prima con gli occhi fanciulleschi di un sognatore, Henry, e poi con quelli di una vittima che finisce per soffocarci dentro.
Poi c’è il corollario di personaggi che Scorsese dipinge con estremo realismo e ritrae con beffarda ironia, rifiutando qualsiasi bozzetto manierista nella rappresentazione del già consolidato immaginario della mafia italo-americana. Si pensi al personaggio di Robert De Niro, l’irishman che insieme a Henry è l’unico a non condividere la nazionalità non italiana, rapinatore gelido che prima regala mazzette di soldi a chiunque e poi fa scomparire tutti i colleghi per sentirsi al sicuro; poi c’è il fratellastro di Henry, il maniacale Tommy di cui Joe Pesci restituisce un ritratto delirante, sopra le righe, un diavolo che sembra voler involontariamente sabotare ogni scena; la madre di quest’ultimo, interpretata dalla mamma di Scorsese, che lo rimprovera continuamente di non trovarsi mai una ragazza quando lui afferma di trovare una ragazza ogni sera; c’è il boss Paulie, uomo taciturno che in prigione usa il metodo infallibile di “tagliare l’aglio così sottile che si scioglieva in padella con pochissimo olio”. I personaggi sono numerosi, come i luoghi che ospitano tutti questi teatrini dell’assurdo: nightclub, locali di svariato genere che un giorno sono pieni e nel giro di una sera prendono fuoco, sale d’azzardo, prigioni che diventano bilocali dove vengono consumati abbondanti cene, negozietti e botteghe, tipiche casine di quartiere e appartamenti di lusso con pareti che si aprono.
Un universo che Scorsese apre ai nostri occhi, nel quale il piano sequenza diventa un movimento visuale che ci fa diventare protagonisti di un locale, con tutti i boss che ci rivolgono la parola, oppure per farci sentire in tutta la sua essenza il privilegio di passare lungo vie secondarie per portare la propria ragazza dentro un locale di lusso; un universo dove la narrazione non conosce limiti, mediante la quale i salti temporali possono essere bruschi oppure esageratamente dilatati tanto da vivere una intera giornata di ordinaria follia accanto a Henry.
Goodfellas è il gioco perverso e impazzito di Scorsese, uno sguardo su una maledizione che ci eccita e disgusta allo stesso tempo, come un allucinato jukebox di canzoni che spaziano da Tony Bennett ai Rolling Stones, uniche forme di commento musicale sulle gesta dei nostri eroi, finché uno di questi non ci punta la pistola contro, rompendo la quarta parete, facendo cadere il mondo di Henry Hill insieme a noi. Come lui, un giorno ci sveglieremo come uno stronzo qualsiasi, perché intanto si trattava di vivere una fantasia.
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