Appunti sparsi su Delphine et Carole, Insoumuses e altri documentari del TFF37

Appunti sparsi su Delphine et Carole, Insoumuses e altri documentari del TFF37

December 4, 2019 0 By Simone Tarditi

A voler individuare un comune denominatore per il trentasettesimo Torino Film Festival, esso sarebbe: cinema documentaristico. I lungometraggi non fiction di questa edizione hanno spiccato per qualità, tempismo, innovazione, desiderio -solo in alcuni casi- di rompere la linearità “didattica” dell’introdurre un argomento, trattarlo, elaborarlo e infine concluderlo. Per esempio, è il caso di Sacavém (Júlio Alves, 2018), una specie di cata-documentario su Pedro Costa che tutto vuole essere tranne che una celebrazione fine a se stessa di uno dei più importanti registi portoghesi viventi. Di Costa viene mostrato il suo lavoro, ma mai il suo volto. È la sua voce, però, che accompagna il viaggio all’interno della sua filmografia da capogiro, fatta di tornanti semantici, estenuanti e ripaganti piani sequenza, inquadrature capaci di contenere nel minor spazio scenico il numero più alto di particolari. L’aspetto più interessante di Sacavém, al fine d’immaginare l’uomo al lavoro ben prima di mettersi dietro la macchina di presa, risulta essere contenuto nei primi dieci-venti minuti, laddove un mix di rumori ambientali, conversazioni e musiche slittano tra un quaderno e l’altro, ognuno zeppo da cima a fondo di collage. Ritagli di giornale, articoli, fotografie, cornici colorate con pennarelli, idee appuntate e che non hanno mai preso forma, altre che si sono sviluppate pagina per pagina fino a diventare dei progetti compiuti. Nel corso dell’opera, la carta lascia spazio ai filmati, e un po’ dell’oscuro fascino creatosi spontaneamente si perde.

Delphine et Carole, Insoumuses

Delphine et Carole, Insoumuses

In direzione diversa si è mossa invece la cineasta ventinovenne Callisto Mc Nulty col suo Delphine et Carole, Insoumuses (2019), che ritrae le lotte femministe nel periodo a cavallo tra la fine degli anni ’60 e i ’70, recuperando i molti materiali video realizzati dall’attrice-filmmaker Delphine Seyrig e dalla collega Carole Roussopoulos. Il documentario nasce da un embrionale progetto iniziato proprio della Roussopoulos e che Callisto Mc Nulty (sua nipote) porta a compimento. In quei riscoperti reportage parigini (mai montati e non del tutto preservati) si susseguono manifestazioni pro-aborto, lotte per conquistare pari diritti, battaglie per il divorzio. Conquiste e sconfitte i cui ideali muovono ancora oggi milioni di persone.

Tra le due, la figura messa più a fuoco è quella della Seyrig, la cui concezione del Femminismo come mezzo che permette alle donne d’imparare a comunicare tra loro è una delle più semplici, ma al contempo radicali. Tra una pellicola e l’altra, usate come ponte nella narrazione, si passa dal Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles (1975) della compianta Chantal Akerman fino ad arrivare al Peau d’âne (1970) di Jacques Demy, e s’intuisce che nessun ruolo è stato mai a caso, soprattutto nell’avanzare della sua carriera d’attrice. C’è una scelta magari azzardata, ma sempre ben precisa, nell’interpretare un determinato ruolo. Coraggio, in una parola. Sia nell’ambiente lavorativo sia nel provare a cambiare i marci meccanismi di una società patriarcale. Delphine et Carole scorre via velocemente, lasciando dietro di sé suggestioni e voglia di approfondimenti.

Altra regista donna francese è Marie-Claude Treilhou, che dietro la macchina da presa ha esordito circa quarant’anni fa. Il suo Comme si, comme ça (2019) è un film ibrido, capace di mescolare assieme un approccio documentaristico classico con materiali che col cinema sembrerebbero non avere nulla da spartire. Sembrerebbero, infatti. Una lunga e segmentata intervista al poeta Michel Deguy, instancabile pensatore che inanella un concetto sull’altro e che nell’edificare una piramide di paradossi costruisce un infinito discorso sul potere della scrittura, è alternata da letture fatte da altre persone, musiche suonate dal vivo, broadcast radiofonici streammati su piattaforme web, pagine di libri scansionate e occupanti l’intero schermo. Alla Jean-Luc Godard, un po’.

Comme si. comme ça Michel Deguy

Comme si, comme ça

Deguy conquista subito per il suo carisma. Lo fa perché è abilissimo a catturare l’attenzione dei suoi uditori, a prescindere che conoscano le sue poesie. È del 1930, ogni decade pesa sulla sua pelle, tra le dita di quelle mani che tanto hanno scritto e su cui sono passate forse troppe sigarette (nell’atto di tirarne fuori una e accendersela a favor di camera, c’è un grande momento d’intertestualità al comparire della scritta “Fumer tue”, il fumo uccide, poco prima o poco dopo aver descritto l’impatto devastante che ha avuto su di lui il riflettere su una guerra nucleare). Comme si, comme ça è un sistema chiuso, ma è anche una straordinaria arena filosofica con un solo intellettuale.

Quasi della stessa età di Deguy e sicuramente con la stessa energia, in La chair et le granit (Anna Recalde Miranda, 2019) ci viene raccontata la vita dell’ebreo Shelomo Selinger mentre costui è intento a scolpire un monumento per commemorare le vittime della Shoah. Vittime tra le quali avrebbe potuto esserci anche lui se non fosse miracolosamente sopravvissuto a un campo di prigionia. Shelomo lavora il granito perché quella roccia durissima è la completa antitesi rispetto alla fragilità strutturale insita negli umani (suo figlio, chirurgo plastico, ne sa qualcosa). In famiglia tutti modellano corpi, quindi, compresa la moglie del protagonista, che si occupa di fotografia.

Lo scultore è animato da una fede michelangelesca di cosa sia una creazione artistica, quasi essa non fosse il risultato del dare forma a un’idea, bensì qualcosa di più semplice. Secondo lui, la statua si nasconde sempre già sotto la pietra e va solo scoperta, togliendo la materia superflua attorno, che la soffoca. Questo non annulla però il comportarsi da perfezionisti, l’affezionarsi al proprio manufatto. Si è quel che si fa. Shelomo scolpisce. Se smettesse, morirebbe. Nel descrivere ciò, La chair et le granit esemplifica quel fondamento assoluto secondo il quale, per la memoria, non esiste niente di meglio che un’opera d’arte.

La chair et le granit Shelomo

La chair et le granit

Sacavém Pedro Costa

Sacavém

Simone Tarditi