
Rosemary’s Baby: quando Polanski evocò il Diavolo a New York
December 12, 2019Si può dire che Rosemary’s Baby, il romanzo scritto da Ira Levin nel 1967, sia il capostipite di una stagione gloriosa per il gotico americano in letteratura. A questo singolare racconto, in cui una giovane donna viene a sua insaputa ingravidata da Satana nella sfavillante New York di fine anni ‘60, seguono una serie di fortunati romanzi horror in cui il soprannaturale finiva sempre per fare capolino nel quotidiano: L’Esorcista di William Peter Blatty, Intervista col Vampiro di Anne Rice, La casa d’inferno di Richard Matheson. Audrey Rose di Frank De Felitta fino agli esordi di Peter Straub e Stephen King. Tanto materiale per il cinema, pronto ad accettare la sfida di filmare finalmente un orrore che non abbia a che fare con vampiri, creature alla Frankenstein o zombie, ma piuttosto con un’inquietudine legata a situazioni di normalità, spesso in un ambiente alto borghese.
Il diavolo niente meno. Il diavolo che riesce a insediarsi comodamente nella quotidianità di contesti più che rispettabili, addirittura con velleità artistiche (forse non è un caso che sia in L’Esorcista che in Rosemary’s Baby vi siano protagonisti coinvolti attivamente nel mondo del cinema: la madre della bambina Regan vittima della possessione demoniaca è una star nel primo mentre il marito di Rosemary è un aspirante attore).
Quello che rende la vicenda di Rosemary’s Baby, se possibile, la più inquietante tra le molte scritte e adattate per il cinema in quegli anni è il coinvolgimento diretto di una donna in stato di gravidanza, colta quindi in un momento di attesa, preoccupazione, vulnerabilità e, tutto sommato, di sacralità. Come trasporre sul grande schermo una storia tanto disturbante e blasfema quanto sensazionale, senza renderla grottesca o dozzinale, ma piuttosto sublimandone gli aspetti terrificanti in una dimensione più emotiva grazie alla quale, fino alla fine, lo spettatore sia legittimato nel sospettare che sia una nevrosi di Rosemary il vero problema?
Roman Polanski ha 35 anni nel 1968, epoca delle riprese del film. È per sua stessa ammissione nel periodo più felice della sua vita sia professionalmente che sentimentalmente. Lui e la moglie, la giovane attrice americana Sharon Tate, protagonista di Per favore non mordermi sul collo, sono convolati a nozze proprio all’inizio di quell’anno. Il regista non ha però avuto una vita convenzionale: nato a Parigi da una famiglia polacca (la madre era un’ebrea convertita) si trasferisce con i genitori a Varsavia poco prima dell’inizio della seconda grande guerra. La madre verrà deportata ad Auschwitz, dove morirà, mentre il padre finirà a Mauthausen riuscendone fortunatamente a sopravvivere.
Roman Polanski è dunque prima che un autore un uomo sopravvissuto all’orrore, un orrore tremendamente più reale e scellerato di quello che qualsiasi romanzo possa raccontare. È forse questo trauma e la consapevolezza che i veri diavoli non sono quelli evocati in un elegante appartamento di uno dei più bei palazzi di Manhattan che ha permesso una realizzazione così cinematograficamente perfetta, in cui la paura, come il dubbio, sono ritardati il più possibile in un crescendo di tensione formidabile? Difficile a dirsi. Il romanzo scritto da Ira Levin è una lettura realmente piacevole ed ha fornito senza dubbio un ottimo punto di partenza per Polanski che ha seguito scrupolosamente a tutti i dettagli suggeriti dalla versione letteraria.
Una giovane coppia, Rosemary e Guy Woodhouse, cerca una bella casa a New York dove mettere su famiglia. Quando trovano l’appartamento dei loro sogni, in uno storico edificio chiamato Bramsford, un loro comune amico non manca di metterli a conoscenza di una serie di terribili fatti di sangue che si sono svolti tra quelle mura. Ciononostante, i Woodhouse si trasferiscono, pronti a iniziare la loro nuova vita: mentre Guy lotta per affermarsi come attore, Rosemary spera di avere presto il primo di molti bambini. Non ci mettono molto a fare amicizia con Roman e Minnie Castevet, una coppia di singolari anziani residenti da molti anni nel palazzo che dimostrano da subito un grande interesse per i loro giovani vicini e i loro progetti futuri. È Guy soprattutto a subire il fascino di Roman tanto da lasciare spesso sola la moglie per andare a conversare con l’anziano; Rosemary dal canto suo è spesso in compagnia di Minnie e di Laura Louise, un’altra attempata abitante del palazzo.
Un tragico rovescio di fortuna di un attore concorrente, rimasto improvvisamente e inspiegabilmente cieco, pone Guy in una posizione molto favorevole facendogli vincere una importante audizione. Benché in seguito alla loro apparente ascesa Rosemary percepisca il marito particolarmente freddo e distante nei suoi confronti, in una notte accuratamente programmata proprio da Guy, la donna rimane incinta. Ma di chi è il seme che la feconderà?
Mia Farrow non era stata la prima scelta per il ruolo della protagonista. Inizialmente ritenuta una bellezza troppo diafana ed eterea per il ruolo di una tipica ragazza americana con mentalità piccolo-borghese, si rivelò invece perfetta proprio grazie all’immagine mite e vulnerabile accentuata dall’iconico e androgino taglio di capelli creato per lei dal parrucchiere Vidal Sassoon. Per interpretare Guy, il personaggio decisamente più spregevole della vicenda, un uomo disposto non solo a fare un patto col diavolo per ottenere il successo ma anche a permettere di fargli ingravidare la propria moglie, dopo l’ipotesi di Robert Redford e Jack Nicholson, viene scritturato un giovane attore e regista di incredibile fascino e grandissimo talento, John Cassavetes. Molte sono le frizioni fra interprete e regista sul set: la tendenza a voler improvvisare dell’intellettuale Cassavetes, già affermato regista di film di taglio decisamente più indipendente, faranno innervosire Polanski. La performance, fortunatamente non risentirà di questi contrasti.
Un Oscar come miglior attrice non protagonista andrà alla formidabile Ruth Gordon per la sua interpretazione di Minnie Castevet. Prototipo della anziana vicina impicciona ma bonaria, in realtà fervente adoratrice di Satana, il ruolo non poteva trovare interprete migliore per venire alla luce. Roman Castevet, personaggio singolare che, malgrado il suo background, lo spettatore potrebbe persino trovare interessante e addirittura piacevole (in effetti è lui che di fatto seduce Guy e lo convince a prendere la fatale e agghiacciante decisione) ha il volto dell’ottimo caratterista Sidney Blackmer, mentre a ricoprire il ruolo del ginecologo satanista Dott. Abraham Sapirstein è Ralph Bellamy. Colonna portante della Hollywood degli anni d’oro e Oscar alla carriera, continuerà a comparire anche da anziano in molti film di successo come Una poltrona per due, Il principe cerca moglie e Pretty Woman.
Cosa rimane oggi di un film come Rosemary’s Baby? Un fascino intatto e una sublimazione della paura inarrivabile. Nessuno è stato più in grado di realizzare un film del genere in cui il demonio non si limita a possedere un mortale, ma, evocato in un prestigioso palazzo newyorkese, si unisce carnalmente ad una donna innocente che ignara porterà in grembo l’anticristo per nove mesi. Quanto di pericolosamente grottesco questa storia inevitabilmente si trova a generare non è in alcun modo respinto da Polanski, anzi diventa materiale prezioso nella messa in scena. A cominciare dalla figura umana e animalesca, ricoperta di lunghi peli, che possiede Rosemary sul talamo preparato per l’occasione alla presenza di tutti i convenuti che assistono all’amplesso completamente nudi, fino alla superba battuta pronunciata dal vecchio Roman Castevet a Rosemary, terrorizzata dal primo sguardo incrociato col suo bambino: “Ha gli occhi di suo padre!”, dice sorridente.
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