Il conformista, la meccanica del trauma

Il conformista, la meccanica del trauma

March 9, 2020 0 By Angelo Armandi

La cifra più caratteristica de Il Conformista, di Bernardo Bertolucci, è forse la sua impalpabilità: l’immagine appare effimera, rimandandone il senso ad un altrove, un luogo inapparente, ben circoscritto nel fuoricampo, che appartiene all’esistenza interiore, alla mente, alla mistificazione del ricordo. Quello che il giovanissimo regista ereditava dall’omonimo romanzo di Moravia era di certo la deformità di una coscienza filtrata dalla nostalgia, da un irresistibile dolore, ovvero la dialettica del sadomasochismo; tuttavia, dove lo scrittore concentrava le proprie energie sulla puntualità, sulla preziosità delle singole parole, sull’esattezza del senso, il regista sceglieva l’evanescenza, la comprensione subordinata all’intuito.

Marcello Clerici (Jean-Luis Trintignant), il funzionario della polizia fascista incaricato di scovare ed ammazzare un intellettuale antifascista rifugiatosi a Parigi, è il conformista a cui rimanda il titolo, ed è forse il più intenso, controverso, possente personaggio moraviano, sottomesso come gli altri personaggi alla (ulteriore) levità di un titolo che ha l’ambizione di coprire un’intera categoria o sentimento umani (La noia, Gli indifferenti, Il disprezzo). Solo all’apparenza il conformismo di Clerici è legato alla situazione politica contingente, non possedendo alcun elemento di ideologia fascista interiorizzato, per quanto tangenzialmente lo si possa considerare un codardo, che per sopravvivenza accoglie gli ideali del totalitarismo; lo sguardo di Bertolucci al fascismo risente anzi della sua giovane età, essendo piuttosto (eppure in linea con la marginalità della questione politica) un insieme di piccoli stereotipi e atmosfere romanzate.

Il conformismo è piuttosto la risposta al problema più scottante, un nodo di Gordio impossibile da sciogliere altrimenti: silenziare il proprio abisso interiore. La codardia sottesa alla scelta è tuttavia in linea con l’infantilismo del personaggio, che in celluloide emerge molto più che in cellulosa; è nei perpetui scatti infantili che bisogna infatti ricercare la costanza dell’angoscia, della intollerabile inettitudine: Marcello è vestito di eleganza, di una sottaciuta mediocrità, e nonostante si sforzi di apparire inosservato, si ritrova quasi sempre immerso nella profondità di campo, nelle deserte inquadrature panoramiche in cui lo spettatore non può che fissare, e giudicare, il suo operato.

Ed è da questa sua compostezza che sfociano grida di rabbia, saluti fascisti imbecilli, gelosie insulse, atti d’incerto e sconclusionato eroismo, tentativi castrati di dimostrare la propria maturità, pulsioni erotiche verso la madre dissoluta ed esplosioni di sfida verso il padre ammattito dalla sifilide cerebrale (afferenti a ben noti complessi, oltre ad un interessante rimando alla ereditarietà di certe follie), improvvise involuzioni puerili (mordersi il pollice nell’affermare di non saper usare una pistola).

Più che nei comportamenti, o nell’immagine chiarificatrice, l’impellenza dell’eversione è piuttosto affidata al simbolo, al senso racchiuso in una allegoria, a quel costante rimandare alla verità per analogie, per affiancamenti di pensieri: l’improvviso abbracciare la prostituta, la macchina da presa che segue il tappeto di foglie nel giardino di casa che si leva nel vento, l’amico cieco che indossa scarpe di colore diverso, il puntare la pistola alla propria tempia prima di realizzare d’aver dimenticato il cappello, il dito guantato che sfiora la mano della moglie del professore sovversivo…

Il bilico tra l’insofferenza alla norma e l’impossibilità di una alternativa: il dissidio di Clerici, che pian piano disvela l’architettura del trauma infantile, è raccontato per flashback; il montaggio di Arcalli, nel Conformista, è la matrice tecnica che regge l’intera impalcatura di pensiero poetico: il tentativo di Clerici di riscoprire l’innocenza, di fingersi anzi innocente pur nella irrimediabile colpa del passato che lo ha marchiato come diverso, come irreparabilmente fuori dal branco (dove è l’idea di normalità, che sia politica/fascista o antropologica/di costume), è raccontato in un lunghissimo montaggio parallelo che racchiude al proprio interno altri blocchi di montaggi paralleli, come se fossero tante vite separate, come se la coscienza fosse frammentata e impossibile da ricongiungere. Il passato a Roma è pregno di piccola borghesia, di bigottismi religiosi e marciume del mos (una Suburra ante litteram), il presente a Parigi è avvolto dalla seduzione, dal compiacimento della ribellione, dal gelo omicida della banlieue e dai balli saffici della libertina cité, eppure questa cesura sembra essere più il prodotto della mente che della realtà: il passato deformato dalla malinconia, il trauma mistificato, la liquidità del ricordo che si fonde col mito, fino a dubitare dell’esistenza stessa della realtà.

Nel finale del film, radicalmente diverso dal libro, Clerici è seduto e rivolge lo sguardo alla macchina da presa. È appena caduto il fascismo, ed egli sta già riprogrammando la coscienza in funzione di un nuovo conformismo politico, avendo già ottenuto quello familiare a cui aveva con tanta sofferenza aspirato. Il suo sguardo, nel mezzo di una folla antifascista che sembra più appartenere alla controrivoluzione degli anni Settanta, è talmente intriso di severità e sofferenza da essere monito per lo spettatore: a quella solitudine, dettata dalla falsificazione del sé, non esiste rimedio.

Angelo Armandi