
Antonioni e la scottante eredità di Blow-Up
August 25, 2020La frantumazione della realtà percepita, per l’inconsistenza della esperienza sensoriale, serpeggia tra i fotogrammi del cinema moderno, in cui la macchina da presa, impenetrabile alla effimera verità di uno sguardo oggettivo, s’avvicina sempre più alla vulnerabilità del regista, fino a condividerne i limiti conoscitivi, e divenire portavoce di quell’anima esistenzialista che ha attraversato la fine del secolo ed è rimasta ancorata alla sensibilità del nuovo millennio.
Blow Up di Michelangelo Antonioni, in questo senso, rappresenta tra le più nevralgiche e massicciamente storicizzate testimonianze del cinema di sguardo. La scopofilia del fotografo londinese Thomas (David Hemmings), lungi dall’essere quel morboso (Velluto Blu) o metafisico (Suspiria) approccio alla realtà, è piuttosto un veicolo esperienziale traghettato dal cinema di genere coevo (La finestra sul cortile, La Conversazione) ed elevato alla potente allegoria dell’esistenza: quei limiti della conoscenza che erano stati postulati dalla protofilosofia illuminista si fondono alla consapevolezza angosciosa della impossibilità di conoscere la verità.
Quale verità? Il giovane Thomas ha fotografato di nascosto una coppia intenta ad un corteggiamento. Il montaggio del film supporta questa percezione, poiché la macchina da presa stessa, all’inizio, è ignara della reale (?) natura dei fatti e lo spettatore condivide l’inganno, accetta l’adescamento nella trappola della certezza sensoriale, si lascia soggiogare sino al disvelamento dei fatti. Grazie al blow up (all’ingrandimento delle foto, appunto, ossia ad una distorsione della realtà, agli albori dell’iperrealismo: solo la maniacalità della ricerca di particolari suggerisce la verità, che persino il veicolo fotografico, inconsapevolmente, occultava), Thomas riesce a scorgere il volto di un aggressore, poi una pistola puntata, e infine il cadavere del presunto uomo corteggiato. Tornando sul luogo del delitto, le vecchie percezioni si sgretolano in favore della visione del corpo, non confermata ad un successivo sopralluogo: al di là dei risvolti dell’intreccio, è cardinale l’assenza di una realtà lineare, in favore del costante rimaneggiamento della verità, che funge da corpo duttile, infinitamente manipolabile, al punto da generare prima un freezing emozionale, e poi la graduale, irreversibile perdita di fiducia in quella che, a conti fatti, è una rappresentazione del reale, piuttosto che la realtà (L’inquilino del terzo piano). Quel blow up diviene dunque un potentissimo velo di Maya, il solo traghetto verso un noumeno infarcito di pixel, accuratamente nascosto alla precarietà dei sensi.
Alla emergenza del dubbio, il sonoro aggiunge tensione alla proiezione del mondo, con suoni che non esistono, ma che sembrano scaturire dalla macchina cinema per corroborare il caleidoscopio di ingannevole sensorialità (lo scatto del grilletto di una pistola, la immaginaria palla da tennis che sbatte su inesistenti racchette nella enigmatica, archetipica partita nel finale).
Che la realtà abbia ben poca attrazione, per Thomas, è costantemente suggerito dal legame sessualizzato con la macchina fotografica, sempre allacciata al polso, come in un amplesso irremovibile. La celebre sequenza del set fotografico, ad inizio film, è il paradigma di una poetica iperrealista: il fotografo, attraverso il filtro dell’obiettivo, disvela a se stesso e allo spettatore la bellezza della modella; le modula i capelli in modo che dal viso trapeli maggiore sensualità sulla futura fotografia; la distende per terra e si mette a cavalcioni su di lei, avvicinando ossessivamente la macchina fotografica al suo volto, avidamente assorto nell’assorbire tutta la carica erotica, emettendo dei gemiti che culminano in un reale orgasmo analogico. Subito dopo, Thomas si stacca dal suo corpo, si sdraia sul divano e abbandona la macchina fotografica, veicolo di desiderio e appagamento, e appare improvvisamente svuotato di vita, preda della noia che l’accompagna quotidianamente (proprio la noia è il propulsore di una ricerca spasmodica di piacere al di là delle cose ordinarie, dopo l’apparente sazietà di giornate stantie; la sua affermazione: “Non ne posso più di Londra questa settimana, perché non fa niente per me”, è in questo senso cardinale).
Nessuno avrebbe potuto immaginare che, all’alba del nuovo millennio, i rapporti interpersonali sarebbero profondamente mutati rispetto al passato, e che le immagini di Blow Up sarebbero divenute profetiche: se il digitale ha soppiantato in poco tempo l’analogico, ed il medium fotografico sostituito da multipli dispositivi elettronici in grado di trasfigurare il mondo e mutarlo in base alle proprie esigenze estetiche, è altrettanto vero che la fascinazione, o meglio la predilezione della realtà virtuale (Blackhat) è intessuta nella “liquida” antropologia contemporanea, impossibile da rimpiazzare col corpo fisico, che è immutabile, preistorico nella sua desolante compostezza. La vita autentica, che nel secolo scorso era attribuita a zone franche del pianeta, in cui la tecnologia non aveva imposto la dottrina del cemento (The Tree of Life), all’alba degli anni Duemila è relegata, con cieca fiducia, al dogmatismo dello schermo, alla sua capacità di manipolare le cose, fino al relativismo estremo che ha sradicato ogni ideologia, portando l’umanità sulle rive di un vuoto valoriale, con l’urgenza di edificare nuovi teoremi.
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