Venezia77: Lacci di Daniele Luchetti, macerie familiari

Venezia77: Lacci di Daniele Luchetti, macerie familiari

September 9, 2020 0 By Angelo Armandi

Lacci, di Daniele Luchetti, è stato il film d’apertura di questa atipica 77esima Mostra del Cinema di Venezia. Nel panorama, ormai saturo, di un cinema italiano dedito alla contemplazione delle macerie dell’istituzione familiare, lo sguardo di Luchetti è più sedotto dalla fisiopatologia della rottura, ovvero scandagliare il perché quei lacci a cui rimanda il titolo, facile allegoria dei legami aprioristicamente Indissolubili, siano in realtà talmente esili da divenire, con facilità, sbrindellati.

La coppia Vanda/Aldo viene parallelamente osservata in età giovanile (Alba Rohrwacher/Luigi Lo Cascio) ed in età pre-senile (Laura Morante/Silvio Orlando), per soffermarsi, in maniera apparentemente didascalica, sul rapporto causa-effetto delle azioni compiute o, piuttosto, di quelle non compiute, poiché l’aspetto della cripticità delle azioni predomina sulla intelaiatura lineare, anche prevedibile, della sceneggiatura. L’impossibilità della scelta è il cocente, irrevocabile ingorgo poetico nel quale affogano i personaggi: non è possibile individuare in alcun modo la prospettiva migliore, non esiste anzi alcuna prospettiva, non esiste neanche l’illusione dello scorcio introspettivo. Si comprende che sotto la patina stereotipica dei soggetti, quasi marionette in balia di un crudele, inconoscibile destino (come già narrato nel tiepido Momenti di trascurabile felicità), esiste l’assoluta incapacità di elaborare una cognizione del mondo. Per questo si osservano i personaggi vagare, fuggire, allontanarsi per raggiungere qualcosa: l’apparenza del movimento sembra spostare il baricentro delle loro vite, in realtà immobili; ed è per questo che, tra le maglie di quel movimento afinalistico, dei personaggi s’arriva a capire ben poco, tanto del presente, quanto del passato. La felicità, in questo senso, spesso relegata all’illusione dell’eversione extraconiugale, qui è ulteriormente svilita, frammentata in fotografie nascoste che raccontano un singolo, irripetibile momento di felicità.

La matrice orrorifica delle scene pre-senili risiede proprio nella persistenza della a-coscienza delle cose (un esatto negativo del precedente, straordinario Anni Felici): il breve, intensissimo sfogo di Orlando è l’unico spiraglio di vitalità nella cronica implosione, ed è l’unico segno di una malattia altrimenti asintomatica.

Non del tutto asintomatica. L’intuizione di Lacci risiede infatti nell’aver affidato un terzo, cardinale elemento la estrinsecazione della malattia di coppia: i figli, anch’essi osservati sia bambini che adulti (Giovanni Mezzogiorno/Adriano Giannini). I figli non sono qui delle psicologie frantumate dalle colpe dei padri, né il prodotto castrato d’una coppia miseranda. Sono piuttosto la potente, ribollente personificazione della soppressione delle emozioni parentali. Non sono quindi esseri inetti, bensì propulsori di odio ereditato dai genitori e lasciato a decantare per decenni fino a modellare le coscienze adulte.

L’esplosione di violenza, nelle fasi finali della narrazione, è l’iniziale decriptazione delle psicologie contratte, intendendo che la rabbia, come veicolo della vendetta, è la necessaria purificazione: i personaggi danneggiano se stessi come forma di inutile espiazione, e quei danni perpetrati sono alla base dell’ingranaggio perverso su cui si è mossa, e continua a muoversi la macchina familiare, fino alla catarsi finale.

Ogni vita, in Lacci, non appartiene al corpo che l’alberga, ma avanza errabonda in sequele di errori in cui l’esperienza sembra non attecchire; non potendo aspirare alla saggezza, questi corpi s’abbandonano al logoramento, e nella loro incapacità di apprendere si sono tenuti assieme come i lacci delle scarpe, e non potendosi slegare, si sono lentamente uccisi.

 

Angelo Armandi