Festa di laurea di Pupi Avati: un bacio e poi nulla

Festa di laurea di Pupi Avati: un bacio e poi nulla

September 15, 2020 0 By Simone Tarditi

Con Festa di laurea Pupi Avati è nella sua comfort zone del cuore, quella degli anni ’40 e ’50, quella dell’Italia incastonata tra il pre-Seconda Guerra Mondiale e il boom economico, la rinascita, il benessere agognato e finalmente raggiunto (da alcuni). Un film che trova forza nella sua linearità, nel suo raccontare una manciata di giorni di forsennato e umile lavoro. Carlo Delle Piane interpreta Vanni Porelli (il cognome dovrebbe dir molto), un fornaio tuttofare incaricato di organizzare un banchetto per celebrare la laurea di una ragazza non qualsiasi: è infatti la figlia di una donna che egli ha sempre amato e che ha sempre ricordato, perlomeno da quando ricevette da lei un bacio spontaneo, casuale, attorno al quale Vanni ha costruito mille castelli in aria, illudendosi che prima o poi avrebbero potuto unirsi, stare insieme …

Neppure la donna, Gaia Franchi (l’attrice Aurore Clément), ha scordato quel bacio, ma al contempo ha saputo dargli il giusto peso fin da quel giorno del 1940: zero. Una rivelazione che, comunque, nella mente del protagonista non scalfisce la di lei immagine, incastonata com’è in un misto di fantasie così lontane dalla realtà. Il giorno di festa però ha da esserci a prescindere da tutto ciò, se non altro – nella mente di Vanni – per fare un regalo alla persona di cui è innamorato. La fatidica giornata si rivelerà un flop per vari motivi e non tutti imputabili all’organizzatore dell’evento, ma anche un’epifania che a molti dei presenti farà capire cose nuove.

In Festa di laurea c’è la piacevolezza, c’è lo studio sociale e c’è quello antropologico, ma sotto la coltre del racconto vi è anche la dissezione che Pupi Avati opera sulla vita e sul cinema. La pellicola altro non è che una messinscena che nasconde dietro di sé un’altra messinscena. Nell’adoperarsi, letteralmente anima e corpo, per portare a termine il compito affidato (e avrebbe potuto non accettarlo, non era obbligato), Vanni si comporta come un regista sul set: impartisce ordini, gestisce un grosso numero di persone, segue una tabella di marcia, si sbatte a trovare soluzioni a problemi imprevisti e cerca di non farsi odiare dal team che in lui ha bisogno di vedere un leader. Una metafora del fare cinema quella di Festa di laurea, sì.

Questa impresa di Avati trova il suo apice, il suo più concreto e materico essere, nel finale. Con la sua cinepresa in 16mm e un assistente-cameraman al fianco, il giorno del festeggiamento è presente anche un uomo che si dà arie da grande cineasta. Ha esperienze pregresse, sempre legate a riprese domestiche, di home-movies familiari girati su commissione un po’ alla come viene, sfocati e tremolanti. I genitori della ragazza a cui tutti gli sforzi sono dedicati vogliono conservare una traccia in bianco e nero e senza sonoro di quei momenti di gioia, vera o finta che sia. Si è già scritto che la giornata in questione è un fallimento sotto tanti aspetti, ma gli strumenti del cinema possono renderla all’apparenza magnifica.

Davanti all’obiettivo gli altolocati e boriosi invitati perdono la loro naturalezza, sì, ed è un bene. Perdono anche la meschinità, non si odono le cattiverie pronunciate o gli sfottò alle spalle. Il cinema rende tutti loro dei perfetti attori, sorridenti, felici, spensierati. Persino divertiti. Non è così. È tutto costruito, eppure tutto così incantevole per un occhio esterno. Ad alcuni un’atmosfera mistificante sa appagare più di ogni altra.

 

Simone Tarditi