Timpani e disagio: Sound of Metal

Timpani e disagio: Sound of Metal

December 23, 2020 0 By Alessio Italiano

Nell’anno più triste e buio che l’essere umano ricordi dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, il 2020, costellato da rinvii cinematografici, sale chiuse e l’arrivo di nuove piattaforme streaming (HBO max, Prime Video, Disney+), ecco che arrivano squarci di vero cinema in coda a tutto quel che abbiamo passato.

Sound of Metal, uscito in alcuni cinema in America e in tutto il mondo sulla piattaforma streaming Prime Video il 4 dicembre, è l’opera prima di Darius Marder, già sceneggiatore di Come un Tuono di Derek Cianfrance. Il film ci racconta la lenta discesa di un batterista metal verso la perdita dell’udito e l’isolamento che ne comporta.

Potremmo definire il film di Marder il figlio o sequel spirituale di Come un Tuono. Numerosi i riferimenti, con un Riz Ahmed totalmente dedito alla performance il cui aspetto fisico strizza fortemente l’occhio al Luke di Ryan Gosling, biker tatuato anch’egli in cerca del suo posto nel mondo, costretto a dover fare i conti con i problemi della vita e la misera realtà di tutti i giorni.

Ruben (il protagonista), si troverà obbligato ad abbandonare la carriera da musicista con la sua anima gemella Lou (Olivia Cooke) per poter risolvere i suoi “nuovi” problemi e cercare soprattutto di guarire quelli interni che si porta dietro da anni e che gli logorano l’anima. Intraprenderà un percorso di riabilitazione presso una clinica per sordomuti dove imparerà a convivere con il suo handicap. Ed è proprio in questo percorso grazie ad un ex reduce del vietnam e dell’aiuto dei bambini della comunità che comincerà ad abituarsi all’idea di convivere con l’assoluto silenzio, senza però perdere completamente la speranza che un impianto chirurgico possa farlo ritornare alla vita di sempre, alla musica, alla roulotte R/V insieme alla sua dolce metà.

La cosa più impressionante dell’opera prima di Darius Marder è la sua messa in scena, quasi esistenziale. Ricorda infatti i grandi autori del cinema del passato. L’assenza di suono ci viene sparata dritto nell’udito con suoni ovattati, tremendi, fastidiosi che accompagnano il personaggio lungo un’odissea alla riconquista del suono, delle melodie e delle parole. Il comparto tecnico del film è davvero notevole, con soggettive che offrono la visione, la percezione e l’udito di Ruben, attraverso le quali il regista ci fa sentire e soffrire tutto il suo dolore; passando in oggettiva invece ecco che ritornano le parole, i discorsi, i dialoghi.

Tutto questo viene ulteriormente enfatizzato con il meraviglioso finale sempre in crescendo che ci lascia ovviamente alla trista ma veritiera realtà dei fatti, quella di una nuova vita (?) che forse non sognavamo ma che ci ridona il “suono” del dolce e quieto silenzio.

Alessio Italiano