
Agnès Varda e quella bellissima, tragica estate del ’65 – Le Bonheur
February 9, 2021C’è chi nasce con una smisurata riserva d’amore e felicità, un sole luminoso capace di nutrire un intero campo di girasoli, rigogliosi, che al suo passaggio si voltano incantati, i petali spalancati come braccia pronte ad accoglierlo. Sceglierne uno solo, il più giallo, quello su cui per primo si è posato lo sguardo, come un’ape in cerca di nettare, lasciando gli altri in eterna attesa. Agnès Varda ci fa e si fa una domanda davanti a questa scena, sfrontata come solo lei sapeva essere, aprendo una finestra e lasciando insinuare il vento della libertà tra le solide mura del sacro vincolo del matrimonio, come un’avance sussurrata all’orecchio. È giusto amare una sola persona? Perché non amarne due (o più), condividere i propri sentimenti, seminandoli per lasciarli crescere disordinati, come i frutti di quella campagna spettinata, sincera e pura che non ha ancora conosciuto la ruvida mano dell’uomo?
François (Jean-Claude Drouot) e Thérèse (Claire Drouot), i loro due adorabili bimbi Gisou e Pierrot, la loro casa di campagna immersa nella periferia parigina in piena espansione, circondata da nuovi squadrati condomini che la fanno sembrare un’oasi di pace e serenità resistente alla fiorente gentrificazione, il cemento in contrasto ai colori del suo giardino. Una vita fiabesca, un amore divertito, vissuto e mai passivo o annoiato, quello che troppi si ritrovano loro malgrado a invidiare. Rigoglioso come i fiori che la Varda inserisce spesso a lato di certe inquadrature, in vaso o libero, sottintesi visivi, complementi di scenografia ma soprattutto aggettivi che impreziosiscono la grammatica visiva di un’opera fortemente simbolica, lasciando alle parole il compito di ammorbidire il racconto con interpretazioni deliziosamente quotidiane. Come se fosse sempre un giorno qualsiasi, uno in cui capita di varcare la soglia della posta di quartiere e scorgere oltre il bancone, che taglia perfettamente il campo visivo come l’orizzonte, il viso delicato e solare, accogliente, di una giovane impiegata dagli occhi di smeraldo. La dolce tentazione di un nuovo amore affrontata con la certezza che questo non cambierà in nessun modo gli equilibri e la gioia familiare, una serenità assoluta che impedisce allo spettatore di lanciarsi in pregiudizi bigotti. “Sono libera, contenta e tu non sei il primo. Amami” gli dirà Emilie (Marie-France Boyer) poco prima che i due si abbandonino a una passione pura e profonda nel monolocale di lei, dependance nel cuore di lui. Il montaggio che mostra fotogrammi disinteressati dell’appartamento, ancora da sistemare, tra uno sguardo e l’altro, sempre più complici e coinvolti. Due innamorati che sono già andati oltre i loro ruoli di amanti, culmine di un corteggiamento elegante ma graziosamente sfacciato, schietto, perché c’era ben poco da girarci intorno: non è la messinscena dei capricci sessuali di un uomo viscido, è la sconsacrazione del matrimonio, del suo significato più dogmatico, che cerca di evolvere in un significato più ampio, per mano della regista che si diverte anche a rappresentarlo come un semplice vestito, commissionato da una cliente a Thérèse.
Qualcosa di confezionato, cucito intorno a quel “sì”, una festa, una tradizione, ma poi i sentimenti faranno comunque il loro corso, come un fisico che cambierà forma col passare degli anni, come un fiume, o il profumo della campagna trasportato dalla brezza sotto il naso dei più fortunati. E poi la Varda, dopo aver insinuato, va oltre, decostruendo il vincolo, sostituendo la monogamia con una relazione più aperta, figlia di quella rivoluzione sessuale che negli anni ’60 scandalizzava i benpensanti (totalmente esclusi dal film, privati di personaggi rappresentativi), mettendo in bocca a François una confessione inaspettata ma inevitabile, per quella che è la sua indole cristallina. Tra l’erba consumata dal sole di luglio, la sincerità di lui, i dubbi di lei, la richiesta di poter amare anche un’altra donna, ma solo col permesso della prima tra tutte. “Voglio che tu sia felice. Tu per prima… È solo perché è stupido privarsi di vita e amore…”. Thérèse che accetta, infine, con un sorriso, la gioia incontenibile del suo amato, l’amore tra le spighe mentre i bimbi dormono, l’esplosione di felicità che nel giro di poche inquadrature diventa un abisso di dolore. Perché la svolta narrativa che piomba sulla pellicola sembra dire “troppo bello per essere vero, troppo rivoluzionario, troppa libertà in una società che non riesce a scrollarsi di dosso le proprie stesse imposizioni”. “Avete visto una donna bionda con un vestito blu?”. Nella straziante morte di Thérèse, tragicamente annegata (inizialmente presentata ambiguamente, tanto da far pensare al suicidio) c’è tutta la disillusione per un mondo che continuerà per la sua strada, tra amori clandestini nascosti nelle intercapedini di matrimoni di facciata, che rifiutano la sincerità.

Un racconto coloratissimo, sgargiante che si tinge improvvisamente di nero, scivolando via dall’estate verso quell’inverno tanto temuto, che si prospetta però mitigato da una nuova felicità. Perché la luminosità di quel sentimento (“se ti avessi conosciuta per prima saresti stata tu mia moglie”) non viene messa in ombra dal lutto, ed Emilie abbraccia la sua nuova vita, amando i figli di François come fossero i suoi e accompagnandolo in un autunno che ora non fa più paura, bacchettando metaforicamente un po’ chi pensava fosse solo una ragazza frivola, in quell’ultima scena che racchiude tutto, quella campagna che ha cambiato stagione e forse ha cambiato per sempre significato, ma che non va assolutamente dimenticata.
Le Bonheur è un capolavoro avanti di 50 anni sui tempi, non solo per come riesce a trattare, con quell’equilibrio sublime tra garbo e provocazione, un argomento che in questi termini è stato trattato poche altre volte su pellicola, preferendo magari lo scandalo, il tradimento alla conciliazione, all’evidenza che certe volte amare una sola persona non basta, ma è anche un tipo di cinema ancora freschissimo e incantevole, cui oggi si possono trovare riferimenti soprattutto nella scena indipendente. Esteticamente strabordante, dove le emozioni vengono raccontate con colori, composizioni, finanche scritte in caratteri cubitali presi da cartelloni pubblicitari, per dargli corpo, sostanza e ritmo, imprimendole nella mente dello spettatore come talvolta un copione non riesce a fare. Estro puro di una regista geniale che se ne è sempre fregata delle regole, inventando cinema ad ogni movimento di camera.
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