
Fiabe selvagge: il cinema di Debra Granik
February 11, 2021 0 By Alessandro FiesoliLeave No Trace. Padre e figlia (Ben Foster e Thomasin Mckenzie) vivono immersi nel bosco secondo i principi dell’arte della sopravvivenza: una tenda, il fuoco e una vecchia credenza per le provviste. Di tanto in tanto il volo di un elicottero turba il sonno di lui, che durante il giorno prepara la figlia alla fuga, guidata dall’imperativo che dà il titolo al film. Capita invece che durante un controllo nella foresta in cerca di sostanze stupefacenti, la polizia ne segua le tracce fino a consegnarli ai servizi sociali. Comincia qui un percorso di formazione fatto di integrazioni irrisolte, traumi emersi solo in parte e comunità ai margini del progresso statunitense.
Si apre con un montaggio descrittivo che sa di fiabesco il ritorno di Debra Granik a otto anni da Un gelido inverno: un verde saturo e vivissimo colloca spettatore e protagonisti in una Portland arcadica che incornicia la routine di Will e Thomasin, segnata peraltro già dai primi dialoghi dall’emersione di un germe che si farà poi largo fino all’esplosione finale. I dettagli sulle ragnatele, le foglie, i ragnetti, i rumori del legno, vengono allora presto troncati dall’irruzione nella foresta delle forze dell’ordine, non prima però di aver accostato a un simile ambiente boschivo una città dagli elementi tecnologici estremizzati nei loro aspetti più asettici, dal bianco dell’ospedale al grigio della funicolare cittadina.
Tanto esplicito l’uso del colore quanto nascoste le back stories dei protagonisti: la Granik suggerisce più che declamare; indica piccoli dettagli più che giungere immediatamente al nocciolo della questione. Will è, di fatto, un veterano mai completamente riassorbito dalla comunità, una mente traumatizzata che trova pace soltanto nell’isolamento al quale ha costretto anche la figlia. “Pensi che ce la caveremo qui?”, gli domanda la piccola Thomasin quando i servizi sociali troveranno loro una sistemazione intermedia tra la Portland di cui sopra e il bosco inospitale, ed è proprio qui che la Granik comincerà a scavare nella loro impossibile integrazione: per qualsiasi altro ragazzino, quella domanda avrebbe avuto ragion d’essere nelle condizioni opposte, nel caso cioè di un improbabile trasferimento dalla civiltà alla solitudine della foresta. Per loro varrà invece il contrario, tanto da spingerli alla fuga come animali selvatici spostati dal proprio territorio. Torneranno allora gli elicotteri a rievocare chissà quali traumi bellici nella mente di Will – per giunta enfatizzati da un effetto sonoro capace di infastidire anche lo spettatore – mentre la figlia comincerà al contrario a mettere radici e a fare progetti per un futuro integrato nella società.
È però nella seconda parte di pellicola che sembreranno tornare le atmosfere dell’opera precedente. In linea con gli stati d’animo dei protagonisti, il verde vivo del primo atto si farà più grigiastro, spento, mentre l’ambientamento in una terza comunità porterà allo scontro inevitabile tra padre e figlia, con la presa di coscienza di un problema ormai irrisolvibile di cui Thomasin non intenderà più farsi carico (“Quello che hai tu che non va, io non ce l’ho, papà”). Ecco allora di nuovo anche le facce caratteristiche di quell’America profonda di Un gelido inverno, volti veraci segnati dal lavoro, dai vizi e da storie sfortunate di gente che si fa forza con poco. Stavolta, per quanto iperrealista voglia e riesca a essere, la Granik cede comunque a certe tentazioni romanzesche tipiche di un certo filone sulla vita naturale e sul ritorno alle radici: accade, per esempio, che nella valutazione delle competenze scolastiche della ragazzina, gli assistenti sociali la giudichino assai più preparata dei coetanei, generando un cortocircuito tra una tale affermazione e ciò che ci è stato mostrato in precedenza, piccola scivolata che richiama alla mente le ipocrisie più spinte di un Captain Fantastic qualunque. Dettagli che non intaccano certo la solidità di un film asciutto, quasi privo di colonna sonora e di difficile immedesimazione, privo di antagonisti e di giudizi sul merito delle azioni dei propri personaggi. Sembra dunque proseguire all’insegna di un sempre più marcato realismo il viaggio della Granik ai margini del sogno americano, tanto a livello di scrittura quanto sul piano del linguaggio cinematografico, qui assai più spoglio ed essenziale del lavoro precedente. Si perde qualcosa – è inevitabile – in termini di ritmo e di coinvolgimento affettivo, mentre ne esce rafforzata l’idea di un cinema minimale ma allo stesso tempo efficace come i personaggi da cui è popolato.
("Il cacciatore", 1978)
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"The deer has to be taken with one shot. I try to tell people that - they don't listen". ("Il cacciatore", 1978)