
Galveston: il cinema e la morte secondo Mélanie Laurent
February 23, 2021 0 By Angelo ArmandiPrima di essere un paese del Texas, Galveston, che dà il nome alla pellicola del 2018 di Mélanie Laurent, è prima di tutto un non-luogo, una cortina di cemento e bitume sul lascito delle illusioni, uno spazio dell’anima o un’idea impossibile di esistenza.
Il criminale Roy Cady (Ben Foster) intraprende il nòstos verso Galveston per fuggire all’imboscata tesagli dal suo boss, e per riconciliarsi con l’idea della morte, essendogli stato diagnosticato il cancro ai polmoni. E dunque, il rifiuto di qualsiasi terapia assume la forma consolatoria della redenzione, insinuando un perenne esercizio di espiazione attorno al cilicio neoplastico. L’incontro con la prostituta Rocky (Elle Fanning), anch’essa apoteosi di un relitto di carne, scombina l’architettura di morte a lungo meditata.
Rocky, assieme alla piccola sorella Tiffany, divengono cioè possibilità di un viatico della salvezza: ricucire le loro vite, riconsegnarle alla dignità e al conforto della bellezza, sembrano un seducente riappropriarsi pre mortem della nobiltà. Tuttavia, l’universo che sostiene le logiche di Galveston non ammette pentimenti, né seconde possibilità. Lo scenario agreste, ammuffito, della periferia umana nel cuore di un’America delilliana, non lascia che la luce trapeli tra piogge notturne e luci al neon fantasmatiche (True Detective), non consente il superamento della condanna, né contempla la dimensione spirituale di qualsivoglia forma di perdono o misericordia (Killing Them Softly, The Counselor).
La parabola tragica è infatti irreversibile, e si condensa nella persistenza della vita: man mano che cresce in Roy la speranza di reinventarsi umano ad un passo dalla tomba, la morte cresce attorno a lui, abbattendo qualsiasi slancio vitale, e più la sua condizione clinica accarezza l’idea della sopravvivenza, più la realtà attorno s’attorciglia in una spirale di cadaveri.
La morte, in Galveston, assume la forma della spiritualità, con solo sporadiche derive materiche in tumefazioni o corpi vilipesi, come se non esistesse alternativa metafisica (Il cattivo tenente): la recitazione in costante sottrazione, i piani sequenza sull’antropologia depressa che alberga luoghi in apparenza privi di memoria, lo sguardo costante sulla miseria morale, l’impossibilità di scorgere autenticità nelle vite che si incrociano nell’indifferenza, senza mai davvero interessarsi le une alle altre; persino la vitalità disperata di Rocky, la sua femminilità ritrovata a latere della prostituzione, i sorrisi timidi e le risate stridule, il vestito rosso del primo appuntamento, quasi abbacinante sopra il pallore mefitico della campagna; finanche le immagini del mare, esperito per la prima volta, sono imperniate dall’attesa per la morte, essendo portatore di bellezza mozzata, quasi plastica nel suo cristallino distacco.
Secondo le leggi di Galveston, che si spingono al di là dell’homo homini lupus, a rasentare il nichilismo spirituale, ai vivi spetta la contemplazione della morte, e null’altro. Roy, l’unico che cerca quella morte, sopravvive. La sopravvivenza, dunque, coincide con la recidiva dell’attesa, il perpetuo aspirare la cesura dal passato o la sospensione della tragedia, e la parallela ammissione della impossibilità dell’oblio: l’idea di Galveston.
Accade cioè che la punizione per una vita di violenze sia il persistere di quel ricordo, e null’altro, un daimon che impone la propria cognizione ad libitum.
Tuttavia, in mezzo all’umanità inaridita, permane la fugace bellezza di Rocky, assieme all’idea di una eredità custodita nella Tiffany divenuta adulta. Ecco giungere per Roy l’unica redenzione possibile, nella forma della sovversione di un’intera esistenza barbarica: testimoniare l’autenticità di Rocky come barlume di vita contro il male abbarbicato alle radici del mondo. Consegnata a Tiffany la memoria di quell’antica bellezza, Roy appare infine sereno, e come obbedendo ad un richiamo ancestrale, s’avventura in direzione dell’uragano, sterminatore per antonomasia, verso il riposo eterno.
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"Remembering's dangerous. I find the past such a worrying, anxious place. The Past Tense."