Negli interni berlinesi di Grand Hotel tutto luccica come a Hollywood

Negli interni berlinesi di Grand Hotel tutto luccica come a Hollywood

May 7, 2021 0 By Simone Tarditi

La notizia di un nuovo film diretto da Roman Polanski – che già di per sé è sempre una sorpresa – è ancora più interessante se tale film si annuncia co-sceneggiato dal collega Jerzy Skolimowski. Entrambi infatti quasi sessant’anni fa sono saliti alla ribalta con quella pietra miliare della cinematografia europea che è Il coltello nell’acqua. Insieme, una pagina di storia l’hanno già scritta, ora possono permettersi il lusso di tornare a collaborare senza più essere affamati di quella gloria a cui si ambisce da giovani.

Stando alle scarne informazioni per ora diffuse, il film s’intitolerà The Palace e la trama ruoterà attorno allo staff di un albergo di lusso in Svizzera (paese da cui il regista non rischia l’estradizione) e ai suoi ospiti. Cronologicamente ci si troverà a cavallo tra la notte del 31 dicembre 1999 e il nuovo millennio. Tali premesse prefigurano quindi una narrazione concentrata soprattutto in uno solo luogo, nel segno di quella claustrofobia d’interni tipica della filmografia polanskiana. L’edificio deputato a concentrare dentro di sé lo sviluppo della trama finirà con l’essere esso stesso un organismo dove prolifereranno paranoia, amori, pulsioni, malesseri, sfoghi di varia natura? Tempo al tempo.

Per ora, quel che si sa su The Palace porta alla mente una pellicola di un’epoca anteriore alla nascita stessa dei due autori polacchi: Grand Hotel, che esce nelle sale statunitensi nell’aprile del 1932 e qualche mese dopo viene portato alla prima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Regia di Edmund Goulding a partire da un romanzo dell’austriaca Vicki Baum, è quello che si definirebbe un all-star film, un titolo pieno attoroni (tra cui non uno, ma ben due Barrymore) e la diva Greta Garbo. Tutto si svolge dentro un prestigioso hotel berlinese in stile art déco dove nascono e finiscono relazioni, c’è chi vince al gioco d’azzardo e chi perde tutto, chi ruba gioielli e cuori, chi sogna di andare a Parigi, chi muore, …

Un film che parte da premesse semplici e incapsula ogni evento all’interno dell’edificio da cui lo spettatore non ha modo di uscire mai. Nelle sue quasi due ore di durata Grand Hotel racchiude ogni cosa in stanze da gioco, dentro camere da letto, nella hall. Coi protagonisti si esce, al massimo, fino all’ingresso, sul marciapiede che separa la porta girevole dallo spiazzo dove le auto possono fermarsi per far scendere o salire i clienti. Una Berlino ritratta e concettualizzata solo attraverso la facciata e qualche inflessione linguistica. Poco, forse, ma tuttavia abbastanza per consentire la sospensione dell’incredulità.

Vuoi per il personaggio vuoi per lei come attrice, nel cast svetta Joan Crawford che eclissa le paturnie della Garbo con una recitazione per niente teatrale, per niente relegata all’epoca muta. Il suo personaggio è quello di Flaemmchen, una stenografa che sogna di stare di fronte a una cinepresa e di lavorare nel cinema (“Oh, I’d love to be the movies”, dice a un certo punto con gli occhi che brillano). Non una sempliciotta dalle gambe sinuose e dal bel visino né un’arrampicatrice, semplicemente una donna che vuole di può e che non si accontenta della posizione sociale in cui si trova. Mentre le coetanee centraliniste impazziscono a stare dietro alle telefonate e alle vite altrui, Flaemmchen prova a costruirsi una propria vita mentre tutti attorno a lei si perdono nell’assenzio, nel baccarat, nei ricordi, proiettata in un futuro lontano da quella struttura dove, citando lo sfigurato medico dal volto semi-ustionato, “la gente arriva, se ne va e nulla accade mai per davvero”. Cercare col cinema un’alternativa a un mondo fittizio come quello è una meravigliosa illusione nell’illusione.

Simone Tarditi