Apples di Christos Nikou: i frutti della memoria

Apples di Christos Nikou: i frutti della memoria

May 10, 2021 0 By Mariangela Martelli

Apples (Μήλα, Mila) è l’opera prima del regista greco Christos Nikou, presentata alla scorsa edizione della Mostra del Cinema di Venezia, nella sezione Orizzonti. Il film (una co-produzione internazionale) è ambientato in una Grecia contemporanea, una sorta di mondo parallelo in cui le persone, a causa di una strana epidemia, rimangono vittime di amnesia. Apples mette in scena il tema dell’identità a cui si affianca quello della rielaborazione del lutto. Il regista ha iniziato a lavorare alla sceneggiatura otto anni fa, dopo aver perso il padre, Kostantinos, a cui il film è dedicato. L’esperienza della perdita, proiettata sul protagonista, Aris (Aris Servetalis) riesce a sublimare la vicenda personale del regista in una narrazione universale. Aris, come alcune persone che vediamo per strada nell’incipit, è colpito da un’improvvisa perdita di memoria. L’uomo viene ritrovato in stato confusionale dal conducente di un autobus, al capolinea. Seguono le scene del ricovero in clinica: dalla fase iniziale del riconoscimento, ai test per la valutazione dei danni subìti. Nel frattempo, non essendo stato reclamato da nessun parente, Aris continua a rimanere in attesa. La condizione di sospensione, che rende il protagonista una sorta di oggetto lost & (not) found, lasciato in deposito, è interrotta dalla dottoressa che lo segue nella terapia. La donna, responsabile del progetto nuova identità, lo orienta verso la possibilità di ripartire da zero. Non esistendo una cura che ripristini la memoria perduta, Aris decide di aderire al programma modulato da una serie di tappe per l’acquisizione di nuove esperienze. La somma dei ricordi, puntualmente catturati dalla Polaroid, è un tentativo per gestire ed elaborare il trauma. Le istantanee diventano le tracce visibili nella nuova definizione di sé e vengono custodite nell’album fotografico, messo in dotazione per il progetto. I medici, inoltre, forniscono ai pazienti un appartamento, presso cui fanno visita per verificarne i progressi.

Nikou, già assistente alla regia per Dogtooth (2009) di Yorgos Lanthimos, sembra aver incorporato parte della poetica legata alla cosiddetta new wave del cinema greco. Nello specifico, alcune somiglianze tra Apples e The Lobster (2015) non passano inosservate: a partire dalla fotografia minimale e il registro grottesco utilizzato in alcune situazioni. A tal proposito ricordiamo le scene iniziali in clinica in cui si effettua l’identificazione dei protagonisti, ma anche i momenti legati alla socialità, come durante i balli e le feste. Entrambi i registi danno forma al sentirsi soli in mezzo agli altri. Alienante l’immagine di Aris a una festa in costume: l’uomo, vestito da astronauta, si aggira negli spazi comuni come fosse in un Altrove del quotidiano, in cui l’isolamento e l’impossibilità di interagire con chi gli è accanto, sembrano avere la meglio. I pochi incontri di Aris sono sempre legati al contesto della cura. Conosce Anna (Sofia Georgovassili) all’uscita della proiezione di Non aprite quella porta (Tobe Hooper, 1974) per scattarle una foto accanto alla locandina. La donna, qualche tappa avanti nella terapia rispetto ad Aris, intreccia con lui una breve relazione. L’avvicinamento di lei, più che per sentito interesse verso il protagonista, sembra un modo per combattere la solitudine e trovare la motivazione per affrontare le prove. Aris le è accanto sia nella tappa dell’incidente, sia in quella al locale, ma dopo la scena del bagno (la cui l’ellisse non ci mostra se i due abbiano avuto o meno un rapporto sessuale) il protagonista decide di lasciarla superare le sfide da sé.

Come il padre del regista, anche Aris ha una passione per le mele: in moltissime scene è raffigurato mentre mangia il frutto che, secondo un detto popolare, viene associato alla memoria. La riflessione del regista va oltre, estendendosi alla memoria selettiva, su come le persone dimentichino con facilità ciò che le ferisca, cercando di eliminare i ricordi che causano dolore. Ciò che decidiamo di ricordare definisce la nostra identità. La riflessione sul ruolo dell’oblio e della memoria è centrale in Apples e si lega a doppio filo con le vicende di Aris che, a seguito della perdita della moglie, si ritrova in bilico tra il voler dimenticare e il voler ricordare. Il protagonista decide di non voler ricordare, facendoci credere che la sua amnesia sia frutto del caso. Aris riparte da capo, mettendosi in gioco, nella necessità di sfuggire alla disperazione. Ma la facciata del protagonista inizia a dare segni di cedimento come quando canta una canzone alla radio o riconosce un cane al parco, chiamandolo per nome. Emblematica la scena dal fruttivendolo presso cui Aris si reca per comprare i soliti frutti. Abbiamo già visto il negoziante che, nel dargli il benvenuto nel quartiere, gli fa dono di alcune mele pregiate. Una sera l’uomo, vedendo il cliente prendere l’ennesimo sacchetto, commenta con l’associazione mele/memoria. L’efficacia della risposta di Aris non si esprime a parole ma attraverso un gesto meccanico che ci colpisce: nel riposizionare i frutti sul bancone, l’uomo dà forma, senza troppi discorsi, alla scelta di non voler ricordare.

In Apples, l’attenzione verso la tecnologia analogica è esibita nell’utilizzo di alcuni oggetti necessari alla cura: dai nastri su cassetta, su cui sono incise le voci dei medici (con cui Aris viene informato dei compiti da eseguire), alle istantanee da scattare per immortalare la tappa superata. La fotografia analogica, secondo R. Barthes, diventa un modo per testimoniare l’esserci stato, ovvero la presenza del soggetto ma anche la trasformazione di quest’ultimo in oggetto. La mancanza di movimento (vita) degli oggetti catturati e fissati su pellicola, fa pensare a qualcosa che è stato e che adesso non è più (morte). Nella foto, qualcosa si è posto davanti al mezzo e vi rimane per sempre, inciso su pellicola. Gli autoscatti che Aris realizza con la Polaroid, generano una nuova memoria e identità, ma come può, il protagonista ripercorrere il tempo, far rivivere il cosiddetto reale allo stato passato, se ha scelto di non ricordare? Le tappe della terapia si fanno più complicate, man a mano che procedono. L’ultima, alla quale Aris decide di aderire, prima di sospendere la cura, è quella che porta alla creazione di un legame con una persona gravemente malata, sospesa tra  la vita e la morte. Aris inizia a visitare un anziano ricoverato all’ospedale, assistendolo nei momenti dei pasti. È solamente in questo contesto che Aris sceglie di ricordare, accennando alla moglie scomparsa. Quando il confidente viene a mancare, Aris partecipa al funerale in disparte, osservando la scena da lontano ma non per questo senza minore partecipazione. Raccoglimento e commozione continuano quando il protagonista si reca nel luogo in cui riposa la moglie, nello stesso cimitero, per sostituire quei fiori comprati all’inizio del film. Aris fa ritorno alla casa dove ha vissuto con lei e scopre come gli oggetti inutilizzati continuino a custodire la memoria di chi non c’è più. Nelle stanze in cui i coniugi hanno condiviso la vita di tutti i giorni, il tempo sembra ormai cristallizzato in un’esistenza lontana. Tutto gli ricorda Anna, la moglie: Aris inizia a riordinare gli oggetti e i pensieri, a far entrare la luce negli ambienti domestici. In cucina trova delle mele in una ciotola: ne prende una ancora intatta, tra le altre avariate. L’immagine finale, in cui Aris taglia il frutto con il coltello, ricorda la conclusione di Banshun (Yasujiro Ozu, 1949) dove a sbucciare una mela è l’anziano padre, rimasto solo dopo il matrimonio della figlia. Due pellicole distanti nel tempo e nello spazio ma accomunate dal medesimo lirismo visivo, in cui il silenzio e la rarefazione del momento presente, sembrano gli unici elementi a confortare chi rimane. << I greci entravano nella Morte a ritroso; ciò che essi avevano davanti, era il loro passato >>[1].

[1] Roland Barthes, La camera chiara – Nota sulla fotografia. Ed. Einaudi, Torino 2003, p.72.

Mariangela Martelli