Cielo sulla palude di Augusto Genina: purezza e desiderio

Cielo sulla palude di Augusto Genina: purezza e desiderio

August 12, 2021 0 By Simone Tarditi

Piove senza sosta. Una distesa di acqua e fango su cui delle capanne di legno marcio e paglia sembrano galleggiare. Un irreale bilico, a seconda degli elementi dominanti, tra lo sprofondare o l’affondare. In quella “desolata, immensa, selvaggia solitudine” -citando alla lettera la voice over dell’incipit- c’è un’Italia fatta di braccianti di ogni età (dai vecchi infermi ai bambini che a malapena riescono a parlare) che per un po’ di cibo dedicano l’esistenza a lavorare la terra. I padroni se ne fregano se qualcuno di loro muore. Lontano dalle grandi città in corso d’industrializzazione vigono ancora le regole e le usanze di un post-feudalesimo fatto di servi della gleba e proprietari terrieri.

I primi minuti di Cielo sulla palude di Augusto Genina trascendono il tempo e il luogo dell’azione. Sì, verrà minuziosamente narrata la vita di Maria Goretti, ma la sezione iniziale conserva dentro di sé un ritratto del proletariato senza filtri o abbellimenti. Lì l’attenzione di Genina si sofferma: sui volti schiariti dal fuoco domestico, sui corpi stanchi e rovinati dalla malaria che prolifera nelle acque putride della zona. Acque che portano la malattia e la morte, ma che egli inquadra il più delle volte come lame su cui il cielo si specchia, come se il terreno e l’ultraterreno si compenetrassero indissolubilmente, l’uno nell’altro fino a essere la stessa cosa perché così è. E, per un film che parla di Fede, ciò non potrebbe essere diverso: a riprova della qualità estetica offerta da Genina, quando per pregare Maria e suo padre interrompono la loro attività di contadini sembra di trovarsi di fronte al dipinto L’Angelus di Jean-François Millet.

Il senso di fragilità della protagonista, un’anima così pura da non riuscire neanche ad ammazzare una vipera, lo si avverte fin da quando viene mostrata governare un’imbarcazione sopra una superficie stagnante, minacciosa nella sua immobilità. Ella canta, da sola, ed è la voce dell’innocenza in un mondo di pericoli. La sua uccisione per mano di un ragazzo che a lungo l’ha insidiata è brutale più per l’attesa che per l’azione in sé, mostrata con tatto censorio. S’innesca infatti un meccanismo di suspense pur conoscendo il destino della giovane, qualcosa che solo il cinema può creare. E nel finale di Cielo sulla palude si sacrifica un poco la cura per le immagini della prima metà per dar spazio ai silenzi e al rumore della natura. Il frinire assordante delle cicale suona quasi quanto un canto funebre, una nenia ripetuta all’infinito che, attraverso il sentimento del perdono, accompagna verso la vittoria dell’amore sull’odio.

Al di là della retorica religiosa, della propaganda fide, del tentativo di cristianizzazione o della radicazione del credo, una pellicola come Cielo sulla palude vale ancora oggi quanto alla sua uscita nel 1949. Il suo valore? Perdurare nel tempo come grande esempio d’arte cinematografica, non solo per il racconto che della vita di Maria Goretti viene fatto.

Angelus Millet

L’Angelus di Jean-François Millet.

Simone Tarditi