
Tre piani: quel che resta di Moretti
October 18, 2021 0 By Angelo ArmandiL’architettura di Tre piani di Nanni Moretti, intessuta attorno alle pareti fisiche di un elegante condominio della borghesia romana, racchiude l’essenza di un trauma, la cui meccanica si dispiega lentamente nel corso dei fotogrammi, fino all’acme implosiva.
Lo sguardo di Moretti, nella narrazione intrecciata delle tre vicende familiari, sembra aver smarrito quella levità, quella catarsi nascosta nell’umorismo amaro, che caratterizzava la sua filmografia, al punto che la poetica dell’amarezza, della ineluttabilità delle cose, s’appropria di una veste nuova, una raggelante nudità. Come se Moretti sentisse l’urgenza di comunicare una nuova cognizione del mondo, inorridito dalla falsità che potrebbe derivare da qualsiasi espressione sardonica affibbiata ai personaggi; come se cioè temesse che qualsiasi filtro tra la macchina da presa e lo spettatore possa condurre la visione ad un disperato deragliamento.
Analogamente alle reazioni più profonde alla paura, Tre piani è attraversato da un immobilismo pervicace, al di sotto dell’illusione del movimento. Il romanzo di Eshkol Nevo, da cui è stato tratto il soggetto del film, descrive separatamente le tre vicende, come tre monadi in cui esplorare parte di un senso più grande, all’interno di una istantanea antropologica. Moretti, oltre a intrecciare le storie, (all’apparenza rifiutando l’idea di un’ennesima separazione, giacché al proprio interno esse sono già caratterizzate dall’ambiguità), le proietta anche in avanti nel tempo, plasmando una dimensione longitudinale in cui immaginare una necessaria (impellente) conclusione.
In questo senso, sembra che il regista, nella scrittura degli esiti (un residuo morettiano irrinunciabile: la parata di danzatori amatoriali in strada del finale è una rappresentazione del Moretti più antico, midollare, incoercibile), abbia voluto superare la incomunicabilità serpeggiante per tutto il film, il paludamento delle coscienze da cui appariva impossibile districarsi.
Da questo punto di vista, Tre piani è una grande monade nella monade, un gioco di frattali che parte dalla percezione della realtà (i corvi immaginari della Rohrwacher, le ossessioni del padre Scamarcio) alla pseudo-coscienza di se stessi (l’integrità glaciale del giudice Vittorio/Moretti). Esiste, cioè, ad ogni piano esistenziale, un inceppamento nei meccanismi cognitivi che impedisce di comprendere la realtà: il mondo della Rohrwacher è pregno di allucinazioni (quella forma di espressionismo morettiano che era ancora stato valorizzato in Mia madre); quello del padre Scamarcio è avvelenato dai deliri; la morale del giudice Moretti è frutto dell’angosciosa, pedissequa intransigenza della legge (dai sottili rimandi all’Aut-Aut danese); e ancora, nelle relazioni coniugali e parentali si riconosce un enigma, un elemento inafferrabile di interferenza che blocca la capacità di rattoppare le ferite.
Questo immobilismo, clamoroso fallimento di problem solving (contrariamente all’umanesimo vivissimo di Caro diario), trasforma le vicende in un manifesto della irreversibilità della morte. Morte intesa come vuoto assoluto, o contemplazione della monade eterna. La castrazione del mondo viene quindi ripresa con pessimismo asciutto, che persiste nei fotogrammi senza alcuna flessione emotiva. È paradigmatica la recitazione sottratta, quasi robotica, che permea il film sin dal principio.
Ciò che manca, e che invece era un tratto dell’anelito spirituale di Moretti, è la poeticità della messa in scena (il finale di La stanza del figlio), che, spogliata di quell’eleganza, si nutre di un residuale prosaico. In Tre piani, l’intera prospettiva di speranza è affidata alle sorti della giudice Margherita Buy, la cui parabola è animata da connotati di tenerezza che lasciano intuire un movimento, una possibilità di dominio, seppur blando, sul mondo: la volontà di potenza ritrovata in un anfratto di timidezza. Pur senza la poesia melanconica di Brian Eno, lo sguardo di Margherita Buy (e, in misura più drammatica, quello estremo, infine lucidissimo di Alba Rohrwacher), nel finale di Tre piani, custodisce quello che resta di Nanni Moretti, della sua visione delle cose, della misura di un possibile superamento della morte coeva, in cui gli uomini smettono di vivere e si trasformano in monadi.
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"Remembering's dangerous. I find the past such a worrying, anxious place. The Past Tense."