
Drive My Car di Ryūsuke Hamaguchi: le pagine di Murakami al cinema
October 20, 2021 0 By Mariangela MartelliDrive My Car, premiato come miglior sceneggiatura al Festival di Cannes, conferma un 2021 di successi per il regista giapponese Ryūsuke Hamaguchi, che alla Berlinale ha ottenuto anche l’Orso d’argento per il film collettivo Il gioco del destino e della fantasia (realizzando i primi 3 episodi di 7). La sceneggiatura di Drive My Car è frutto di un lavoro a quattro mani del regista con Takamasa Oe che, insieme, riadattano l’omonimo racconto del connazionale Haruki Murakami, pubblicato in Italia nella raccolta Uomini senza donne, da Einaudi. Ricordiamo che questa è l’ultima di una serie di trasposizioni su grande schermo delle pagine dello scrittore, tra le altre, Tony Takitani (2004), Norwegian Wood (2010) e Burning – L’amore brucia (2018).
Yûsuke Kafuku (Hidetoshi Nishijima) è un attore e regista teatrale che condivide la routine casa- lavoro con la moglie Oto (Reika Kirishima), sceneggiatrice. Sebbene il protagonista venga a conoscenza dei tradimenti di lei con degli attori giovani di passaggio, la relazione della coppia non sembra risentirne. La donna è il fulcro delle vicende: la sua scomparsa improvvisa, a seguito di un’emorragia celebrale, divide il film in due atti, segnando un prima e un dopo nella vita di Yûsuke. Il flusso lavorativo del protagonista non si blocca: è chiamato a dirigere una residenza artistica a Hiroshima, dove inizia a selezionare la compagnia per il riadattamento multilingue de Lo zio Vanja di Čechov, progetto a cui stava lavorando con la moglie. Tra i candidati ai ruoli, provenienti da varie nazioni del sud-est asiatico, il regista ritrova il giovane attore Kôji (Masaki Okada), presentatogli da Oto e con cui la donna ha avuto una breve relazione. Tra gli altri imprevisti, l’organizzazione teatrale impone a Yûsuke un’autista, Misaki (Toko Miura), una ragazza di ventitré anni, silenziosa, che nelle pagine del racconto ci viene descritta come “rozza”. Nonostante l’abitudine a fumare di lei e l’iniziale avversione del protagonista nel vedere una persona estranea alla guida della sua vecchia Saab 900 rossa, Yûsuke rimane colpito dai modi sicuri e fluidi di Misaki. La discrezione dell’autista mettono a proprio agio Yûsuke che, durante gli spostamenti, ripete la parte del protagonista della pièce, rispondendo a voce alta alle battute registrate in precedenza da Oto, su cassetta.
In Drive My Car i momenti di silenzio si alternano alle tante parole della vita quotidiana, molte delle quali sono delle battute dette e ripetute nel retroscena dell’autovettura, in preparazione a quelle da dire una volta sulla ribalta. Le assenze e i sensi di colpa aleggiano attorno ai personaggi che, poco per volta, sentono la necessità di aprirsi all’altro, condividendo la propria solitudine. L’auto di Yûsuke fa da sfondo all’incontro con Kôji, dopo una serata trascorsa insieme al bar. I due uomini condividono la perdita di Oto e hanno modo di parlarsi durante il viaggio di ritorno. In particolare è il giovane ad aprirsi e a esprimere l’amore e l’ammirazione provati per la moglie di Yûsuke, soffermandosi sull’impossibilità di conoscere fino in fondo la persona amata << Se desideriamo davvero capire qualcuno, possiamo soltanto guardare dentro noi stessi >>[1]. L’interazione tra i due personaggi maschili, sembra, allo stesso tempo, sia autentica sia il suo contrario. In Drive My Car realtà e apparenza rimandano a un continuo gioco di specchi, il cui confine tra verità e menzogna rimane sospeso tra la vita quotidiana e il lavoro degli attori. << Distaccarsi da sé e immedesimarsi in un ruolo era il suo lavoro. E recitava mettendoci l’anima. Una recita senza spettatori >>[2] . La finzione narrativa tocca anche delle punte visionarie, come nell’intimità dei due coniugi Kafuku (cognome che contiene il kanji di fortuna). Il legame tra sesso e immaginazione è uno dei topoi che plasmano l’universo di Murakami e che ritroviamo su grande schermo: Yûsuke ascolta e memorizza le storie che Oto inventa durante e dopo l’amplesso, poi trasformate nel nucleo delle sceneggiature. Questa capacità della donna si è manifestata con la rinuncia alla carriera di attrice, conseguente alla perdita della figlia.
L’ultima parte del film vira verso il viaggio on the road: Yûsuke e Misaki sono diretti verso il nord, in visita al paese natale della ragazza, in Hokkaido, dove ha imparato a guidare per aiutare una madre problematica. Sono trascorsi cinque anni dal giorno in cui Misaki se ne è andata, dopo che la frana le ha distrutto la casa e ucciso la madre. Nella scena dell’arrivo in Hokkaido, l’immagine è piena di luce e per alcuni secondi l’assenza della colonna sonora sottolinea quel fragile senso ovattato del paesaggio innevato che circonda i protagonisti. Vicino ai resti del proprio passato, Misaki lancia dei fiori e abbraccia il suo compagno di viaggio. Arriva così, come a teatro, il momento della catarsi, in cui i due si liberano dai pesi che si portano dentro. Un film poetico e ricco di pathos dove la vecchia Saab 900 diventa il luogo in cui Yûsuke si abbandona al ricordo della moglie ma che, a differenza del racconto, non innesca l’analessi narrativa. Nella prima parte del film, infatti, vediamo Oto ancora viva, senza procedere a ritroso come nelle pagine di Murakami. Drive My Car è un film di ampio respiro che si sviluppa nell’arco delle tre ore, senza risultare lento. L’attenzione per i particolari e i dettagli sono messi in risalto nei momenti di silenzio e resi a livello visivo dalla splendida fotografia di Shinomiya Hidetoshi. La nitida composizione delle scene, molto spesso simmetriche, sottolinea l’equilibrio dell’alternarsi tra gli spazi chiusi (casa, teatro, auto) e gli spazi aperti (strade di Tokyo, parco e porto di Hiroshima, l’Hokkaido). Una cura meticolosa è, inoltre, riservata al linguaggio. Da quello dei segni utilizzato dall’attrice muta, alla voce di Oto incisa sul nastro che Misaki fa ripartire dal punto in cui si è arrestato il giorno prima. Infine, sempre nella Saab 900, il dialogo tra conducente e passeggero sovrappone il ruolo interpretato nel quotidiano a quello della pièce cechoviana. << Tutto quel che possiamo fare è cercare di sopravvivere, mandare giù e andare avanti. – Allora tutti dobbiamo recitare? – Sì, più o meno è così >>[3].
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[1] H. Murakami, Drive my car, in Uomini senza donne, Einaudi edizioni, 2015, p. 32.
[2] Ivi, p. 16.
[3] Ivi, p. 37.
- The Beatles
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