TSFF33: Sisterhood, corpi nella rete

TSFF33: Sisterhood, corpi nella rete

January 27, 2022 0 By Simone Tarditi

Partenza da Karlovy Vary e approdo al trentatreesimo Trieste Film Festival (prima fase dal vivo, seconda online via MyMovies), ecco il viaggio del macedone Sisterhood, sceneggiato e diretto dalla regista Dina Duma, affiancata da Martin Ivanov per la fase di scrittura. Vicenda come tante, due amiche adolescenti, una dominante e l’altra più remissiva, giocano a fare le grandi seguendo l’iter canonico di quell’età: la voglia di divertirsi qualsiasi sia l’ispirazione del momento, l’attrazione-repulsione del sesso, la conoscenza del mondo attraverso l’uso del proprio corpo (quale ne sia l’attività). Un’età in cui solitamente – e Sisterhood non vuole costituire un’eccezione – gli ormoni contano più del raziocinio. L’amicizia di Maya e Jana, questi i nomi delle due protagoniste, ha un twist quando entrambe pubblicano online un momento d’intimità tra una loro nemica e un ragazzo. Trattasi di un filmato che “finisce” in rete e nell’arco di 24 ore distrugge la vita della loro vittima. Vittima non nel semplice modo di dire: la poveretta morirà due volte, in entrambi i casi per mano loro.

Nella disamina dei sensi di colpa e con un epilogo inconcludente in massimo grado, a cosa ambisce Sisterhood? Demonizzare i social network? Puntare il dito sul proliferare di certe pratiche di ferocia digitalizzata? Apologizzare i teenager o metterli alla gogna? Il film è in bilico tra tante, forse troppe cose: il desiderio (qualunque esso sia) che si scontra con il volerlo respingere, il condividere in contrapposizione col confidarsi, la coesistenza di divertimento e infelicità, l’odio femminile che è sempre figlio dell’invidia, la perfezione plastificata dei social rispetto al degrado della realtà. Guardando Sisterhood viene da chiedersi in quale universo sia meglio stare, se in quello dell’Internet o quello della vita vera, o se far già che dirigersi verso l’aldilà piuttosto che trovare un punto fermo in mezzo al caos distruttore del mondo.

In Sisterhood si assiste a una Jazz Age di cent’anni dopo, solo con una spensieratezza insincera e annegata oltre che nell’alcol anche negli stream digitali. Un film che non affronta il rapporto col proprio corpo e si concentra invece sulle emozioni, che sono sempre contrastanti tra di loro. Il finale non conclude nulla della narrazione. Che questo sia un bene o un male, un valore o disvalore, lo decida il pubblico. Sisterhood non vuole dare risposte in merito. Non vuole dare risposte in generale, soltanto mostrare una sequenza di eventi. Come quel distruggere una vita con un click e poi porne fine con una spinta. Il ruolo della mano, assassina e complice.

Simone Tarditi