Cannibalizzando il corpo morto di Dune

Cannibalizzando il corpo morto di Dune

February 11, 2022 0 By Simone Tarditi

La premessa delle premesse: valutare un film dagli incassi è sbagliato, possono giusto farlo i finanziatori, non dovrebbero né il pubblico più vasto né i cinefili misantropi chiusi nelle loro camerette. Perché non ha senso. Dato per spacciato ancor prima che uscisse, Dune ha performato al box office quello che più o meno ci si sarebbe aspettati per un titolo di questa portata in tempi, per altro, post-pandemici. Per chi il film l’ha amato o ne è rimasto anche solo incuriosito, la buona notizia è che, essendo andato tutt’altro che male, ne realizzeranno una seconda parte per continuare (e completare?) quanto iniziato a raccontare.

Soldi a parte, uno dei motivi per cui Dune sembra aver lasciato perplessi alcuni non è per la confusione o la sconclusionatezza. No, è per la sensazione di déjà vu che può giustamente farsi breccia. Sul piano della trama cosa propone il film? Una lotta per il potere, una successione dinastica, un rapporto simil-incestuoso, lo scontro tra nobili e poveracci, un bel tenebroso protagonista e un cattivone dall’aspetto orripilante, la sconfitta, la rivalsa, l’amore. Tocca essere onesti, cosa dice di diverso Dune rispetto a pellicole del passato? Poco o nulla, ma, si sa, l’originalità nel cinema è un miraggio, un’illusione, e andarne alla ricerca è da ingenui. Questo ragionamento va poi ribaltato su se stesso: il Dune letterario era originale e non aveva pari nel 1965 quando ha per sempre cambiato il corso dei libri di fantascienza. La sua rovina – se così la si può definire – è stata il cinema, e non ci si può neanche rifugiare in quell’universo parallelo dove Jodorowsky nel 1976 è finalmente riuscito a girare la sua opera lunga una decina di ore. La verità è che anche allora la visionarietà delle pagine scritte da Frank Herbert e delle immagini pensate da Jodorowsky non erano riproducibili coi mezzi dell’epoca. Un decennio dopo le cose sarebbero state diverse, nel frattempo il materiale era però stato cannibalizzato da altri (miope chiunque non veda nella saga di Star Wars tanti elementi di Dune e non solo, tra cui il concetto della predestinazione, pilastro dell’Epica da due millenni a questa parte). E oggi si è punto e a capo: il Dune di Denis Villeneuve esce per imporsi quale adattamento cinematografico definitivo, non per aprire nuovi orizzonti fantascientifici, per quanto poi effettivamente ci riesca sul piano della messinscena (il design delle scenografie, quasi un voler ripescare la monumentalità dei lavori di Fritz Lang all’UFA, è encomiabile oltre ogni dire).

Durante i primi istanti di Dune la sovrapposizione tra il giovane Paul Atreides e Villeneuve appare totale: entrambi fanno sogni troppo realistici per essere solo finzione prodotta dal profondo della mente. L’uno si sveglia e trova conferme nel reale, l’altro si rifugia nella fantasia del cinema per creare realtà parallele. Il regista sembra esperirle senza risparmi e vi trascina con sé quegli spettatori che accettano di essere guidati in un mondo sconosciuto, alla sua scoperta. Questo dovrebbe essere il cinema: un sortilegio, non un frastornamento. Mentre instupidire è quello che, salvo casi rarissimi, i blockbuster vogliono fare al giorno d’oggi, motivo per cui Dune non può trovare quel pubblico di riferimento lì. D’altronde anche Blade Runner 2049 sta ancora gridando vendetta e attendendo di essere rivalutato. Anima in pace, passeranno anni. La storia del cinema insegna infatti che ci vuole tempo, soprattutto quando non si è in linea con i gusti del presente di un pubblico abituato all’uniformità. Anche nel finale il protagonista di Dune si sostituisce al suo regista (e viceversa), in quell’andare incontro all’inevitabile, ossia a quel che attende dietro una duna, oltre l’orizzonte. Qualsiasi sia il destino. Portando con sé tutto quel che si riesce. Dopo essere sopravvissuti ai propri sogni, alle proprie visioni, alle immagini della propria morte.

Simone Tarditi
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