The Human Voice: Almodóvar reinterpreta Cocteau

The Human Voice: Almodóvar reinterpreta Cocteau

March 16, 2022 0 By Mariangela Martelli

Con il cortometraggio The Human Voice (presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2020), Pedro Almodóvar realizza la sua prima opera in lingua inglese, riscrivendo la sceneggiatura (“liberamente basata”, come dichiarato nei titoli di testa) dalla celeberrima pièce di Jean Cocteau (La Voix Humaine, 1930). Il regista spagnolo ha scelto di far interpretare a Tilda Swinton il ruolo della protagonista, ovvero la voce umana che vediamo e sentiamo, per tutta la durata del corto. Si tratta di una donna che, lasciata dal compagno, si ritrova a vivere in una “bolla” temporale, sospesa nella rappresentazione di uno spazio ibrido, dove i confini tra realtà e finzione si confondono. La figura femminile ci viene presentata di spalle: una silhouette dai contorni sfuocati, vestita di rosso e racchiusa al di là di un vetro opaco, per poi mostrarsi nitida una volta uscita dalla cornice che la conteneva. La serie di scatole cinesi, innescata da questa immagine iniziale, continua a dipanarsi mentre la protagonista percorre la distanza che la separa dal suo appartamento, contenuto all’interno dell’enorme teatro di posa. La donna si muove in silenzio nell’ambiente deserto e appare stanca: si siede su uno sgabello per poi indossare alcuni abiti (firmati Balenciaga) a tinta unita, dal rosso al nero, passando al blu. Il montaggio è veloce e seguiamo la protagonista dal ferramenta, accompagnata dal cane Dash, mentre compra un’ascia che ripone, incartata, in una grande shopping bag. Quando rientra a casa, non possiamo non notare i colori accesi dell’arredamento, che oltre a caratterizzare la zona giorno, contraddistinguono l’estetica delle pellicole di Almodóvar.

La protagonista si sente svuotata e incapace di muovere i primi passi in una quotidianità che non riconosce e che non le appartiene più: il rituale quotidiano di aspettare il ritorno del compagno, leggendo o guardando un film, è stato reciso da tre giorni, da quando lui se ne è andato. La vediamo sistemare, in modo distratto, la pila di titoli abbandonati sul tavolino, tra i quali scorgiamo alcuni omaggi del regista ad alcune storie melodrammatiche con protagoniste femminili, realizzate da grandi autori di ieri e di oggi (Douglas Sirk, Capote, Tarantino, F. S. Fitzgerald, Kore’eda, P. T. Anderson…). Poi la donna spezza un’attesa senza fine, uscendo per una sigaretta sulla terrazza fiorita (che si rivela essere un’impalcatura, affacciata sull’interno dell’hangar-teatrale), prima di indossare un completo rosso e sferrare dei colpi d’ascia sul vestito dell’uomo, lasciato su un lato del letto. Il movimento della mdp, dall’alto, ci rivela lo spazio dell’appartamento, costituito dalla totale assenza della quarta parete, tracciandone un universo fittizio, esposto allo sguardo esterno, che tanto ricorda quello in Dogville (Lars von Trier, 2003). La donna, dopo aver gettato in terra un vaso bianco, apre il cassetto del comodino ed estrae il contenuto dei flaconcini: il suo palmo si riempie di pillole gialle, rosse e bianche, che scompaiono subito, con un bicchiere di vino. Con la mano posata su quel che resta del completo al suo fianco, la protagonista sprofonda in uno stato di semi-svenimento, per poi essere svegliata dalla suoneria dello smartphone, rimasto in cucina. Non raggiunge in tempo la telefonata anonima, ma a questo punto tanto vale riacquistare un minimo di lucidità: infila la testa sotto la doccia, rimanendo vestita e dopo essersi preparata un caffè, riceve la seconda telefonata. Risponde, indossando gli auricolari e il tono volutamente sorpreso rivolto all’interlocutore (che intuiamo essere lui) innesca una serie di menzogne, che le permettono di cucirsi addosso un altro personaggio, quello della donna forte, che non è rimasta bloccata dallo shock ma anzi, ha reagito buttandosi negli impegni. Dal pranzo con un’amica, al teatro e allo shopping per la casa, passando per l’incontro con l’agente, il lavoro e il suo voler diventare una donna pratica: tanti tasselli per costruire il tentativo (consigliatole dal terapista) di sostituire le vecchie abitudini, condivise con il compagno, con delle nuove. La protagonista, nel corso della lunga telefonata, mette in scena un nuovo racconto di sé, cercando di dare forma a una diversa identità. Le bugie continuano, senza interrompersi e quando la donna si ferma accanto al pesante tendone verde che delimita lo spazio fuori dall’appartamento (ma sempre dentro al teatro), le parole di lei trovano lo sfondo perfetto per la messa in scena telefonica. La presenza del cane Dash e di alcuni oggetti, rappresentano dei legami, dei punti di contatto rimasti tra i due ex amanti, a cui lei accenna: dal primo, definito come “un’anima perduta” che soffre la mancanza di lui e lo cerca invano; alle lettere e agli appunti dell’uomo da lei conservate, fino alle valigie pronte all’ingresso, quest’ultime un pretesto per rivedersi e parlare. La protagonista pronuncia, per la prima volta il nome dell’altro, che né vediamo, né sentiamo: Josè. Poi all’improvviso, cade la maschera e le bugie non reggono. Il personaggio da lei costruito, nel corso della telefonata, crolla ed emerge la vera voce umana, quella reale e densa di tutta una fragilità tenuta nascosta, fino al momento in cui lei racconta all’uomo di come abbia effettivamente trascorso gli ultimi giorni: chiusa in casa ad aspettarlo, senza mangiare né vedere o sentire qualcuno. Lei continua, confessandogli di essere stata male e di aver perso il controllo più di una volta, come quando ha aggredito il letto con l’ascia e ha preso la dose “non letale” di 13 pillole (il suo numero fortunato), per inscenare un tentativo di suicidio e farsi trovare in quelle condizioni da qualcuno. L’idea di una “morte dolce” (sostituita da quella iniziale di gettarsi dal terrazzo, in quanto lui non sopporta la vista del sangue) è quella di sparire in un sogno, insieme, ma nell’istante in cui le parole prendono corpo, la donna comprende il non senso del gesto, perché ora i desideri di entrambi non coincidono più come un tempo. Dopo che la linea è caduta, la protagonista recupera una tanica di benzina e ne versa il contenuto ovunque, anche nei fiori e sulle pareti di legno. Con indosso i vestiti presi casualmente dall’armadio, nell’impeto del momento (una giacca di pelle, pantaloni pitonati e maglietta floreale), la potenziale piromane è pronta per innescare un incendio ma viene interrotta dalla nuova telefonata di lui. Nella richiesta che lei gli rivolge, di andare sulla terrazza e di guardare verso il luogo dove hanno vissuto, c’è l’ultima occasione per raggiungerlo: come se il fumo e le fiamme fossero le tracce, il segnale per rendersi visibile alla persona che ha amato e prenderne commiato. Interrompe lei la telefonata e con Dash varca la soglia che li separa dal mondo esterno, verso una passeggiata fuori, per riappropriarsi di una nuova quotidianità, mentre i pompieri, in un movimento in senso contrario al loro, entrano nello spazio chiuso per domare le fiamme.

NOTE SULLA PERFORMANCE

Almodóvar ha scelto l’amica Tilda Swinton per farle interpretare la sua versione de La voce umana: elemento guida della narrazione e strumento che plasma lo stato d’animo della protagonista. La recitazione dell’unico personaggio, all’interno di un unico atto, si misura con le interpretazioni delle altre voci umane che hanno preceduto l’attrice scozzese, come quella di Anna Magnani, nel primo dei due episodi da L’amore (Rossellini, 1948), in cui l’autobiografia dell’attrice italiana ha contribuito a dare maggiore intensità alla performance, anticipandone la crisi che di lì a poco avrebbe vissuto con il regista e Ingrid Bergman: quest’ultima nello stesso ruolo coctoniano nel 1966, nella versione di Ted Kotcheff. Per Almodóvar, l’icona del neorealismo, Anna Magnani, rappresenta il modello dell’attrice e della donna mediterranea ed è interessante vedere come per la propria trasposizione, il regista abbia scelto una protagonista dai tratti androgini, dalla femminilità contrapposta a quella delle due dive del passato. La fisicità della Swinton è la caratteristica che libera il corto di Almodóvar dal peso e dal confronto dei due adattamenti “storici”, molto fedeli alla pièce originale, ma non per questo la variazione rende la performance meno intensa e coinvolgente delle altre. L’interpretazione della Swinton è tutta giocata tra la realtà e la finzione, in bilico tra la sincerità e l’inganno dei sentimenti del personaggio e la volontà di comunicarli (o meno) all’altro. Le emozioni della donna prendono forma attraverso il racconto di sé, definendo un’immagine ben precisa da trasmettere all’altro, facendosi immaginare all’interlocutore, attraverso la propria voce. La versatilità della Swinton è perfetta per il ruolo di una donna totalmente presa dal vortice dei propri umori: il passaggio da un tono esagerato, intensificato che vira a uno stato di immobilità, di abbandono e di silenzio (e viceversa) avviene in modo fluido e mutevole, raggiungendo sfumature melodrammatiche, al pari di quelle tragi-comiche. Ricordiamo che le riprese di The Human Voice sono state interrotte a metà, a causa dell’emergenza Covid e ri-iniziate a Luglio, in un clima di incertezza generale. Nonostante l’ambientazione sia stata pensata pre-pandemia, la solitudine che percepiamo in molte scene, in cui il corpo dell’attrice si aggira nell’appartamento, in un tempo sospeso, assume un significato metaforico, di isolamento dal resto del mondo, che i più hanno provato nel primissimo lockdown.

LEGAMI TELEFONICI

In The Human Voice, l’oggetto del telefono è emblematico: se per Cocteau era inteso come un “comune accessorio dei drammi moderni”, è interessante vedere come l’utilizzo della variante-auricolari, in Almodóvar, rappresenti un elemento tecnologico in grado di aggiornare la celeberrima pièce ai giorni nostri, oltre a dematerializzare a livello visivo, quel legame a cui le attrici precedenti si ancoravano nel finale: attorcigliandosi il filo del telefono attorno al proprio corpo. Per quanto riguarda gli elementi dell’ascia e dell’incendio, sono delle aggiunte, assenti nell’originale, che il regista ha apportato in fase di riscrittura e che fanno virare lo sviluppo delle vicende verso una possibile “vendetta al femminile”: in modo particolare è lo strumento da taglio, impiegato dalla protagonista nella “scena del delitto”, a diventare il mezzo con cui eliminare un’assenza insostenibile, quel corpo della vittima evocato dai vestiti che l’hanno contenuto. Il regista spagnolo, inoltre, dissemina il corto di alcune citazioni autoreferenziali, che permettono a The Human Voice di riagganciarsi al resto della filmografia: dalla distruzione del set, ai rifermenti coctoniani ne La legge del desiderio (1987), passando all’incendio dell’appartamento in Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988). Come Cocteau, Almodóvar rappresenta un esperimento di conversazione colta al telefono, mantenendo la tensione tra i sentimenti espressi e il non detto. Il ritmo della scena è generato dalla raffica di parole della protagonista, inframmezzata dai silenzi: se i primi costruiscono il personaggio femminile, i secondi ci fanno immaginare le possibili risposte del personaggio invisibile (Josè), mentre la protagonista ascolta ciò che noi non udiamo. La parola mette in forma i sentimenti, le contraddizioni e la vulnerabilità di lei e il non sentire le battute dell’altro, ci fa immaginare il corpo dell’interlocutore (come per lei) e la voce di quest’ultimo, in un muto fuoricampo. Un’opera breve, densa di silenzi e parole, in cui lo spettatore tenta di riempire i vuoti e le attese, ricostruendo le informazioni mancanti attraverso le risposte e le reazioni della protagonista. Il telefono come fil-rouge è al tempo stesso ponte di connessione verso l’altro ma anche limite invalicabile che restituisce una fisicità fatta a pezzi, all’altra parte. Mentre le parole della voce umana si consumano, ci colpisce la loro impossibilità di esprimere a pieno i sentimenti provati, donandoci la parte autentica, invisibile, della protagonista, solamente sotto forma di continue contraddizioni.

<< Quando si mette giù il telefono è come se distruggessimo l’ultima nostra possibile avventura, incuranti dei gemiti dell’altro da noi >> J. Cocteau, La voce umana, Edizioni Einaudi, 2007.

Mariangela Martelli