Good Morning Babilonia: con bucati guanti di velluto

Good Morning Babilonia: con bucati guanti di velluto

April 8, 2022 0 By Simone Tarditi

Non amato oggi dagli appassionati del Muto poiché non illustra veramente la realizzazione di Intolerance e ai tempi non apprezzato più di tanto dai fan dei Taviani poiché geograficamente lontano dalle opere precedenti, Good Morning Babilonia è un film che a distanza di decenni conserva lo stesso peso e la stessa forma, non avendo perso né guadagnato nulla in termini di popolarità in trentacinque anni di vita. Anche le riviste di critica e la saggistica cinematografica non hanno fatto fiorire più di tanti studi nuovi, lasciando questo titolo in attesa di una completa riscoperta.

Quella di Good Morning Babilonia è una vicenda di fratelli restauratori di chiese che, dopo il fallimento della ditta paterna, partono per gli Stati Uniti alla ricerca di fortuna. Lo scopo? Guadagnare abbastanza per rientrare in patria, riscattare le terre dei propri avi e ivi restare. È il primo quindicennio del nuovo secolo, tutto è possibile. Come da tradizione nel cinema dei Taviani nulla va secondo i piani. I due rimangono in California, finiscono con lo sposare due ragazze locali e, vero, terminano le loro esistenze nel Vecchio Continente, ma non immersi nel conforto della terra natìa bensì morti sul campo di battaglia durante la prima guerra mondiale, lo stesso conflitto che in Intolerance Griffith affronta con un inedito messaggio pacifista che contribuì a far del suo epico opus magnum il primo grande flop della cinematografia mondiale.

Cosa unisce il regista ai due fratelli di Good Morning Babilonia? L’abilità di quest’ultimi nell’aver realizzato delle statue di elefanti in scala quasi 1:1, le stesse che nella mente di Griffith hanno un preciso aspetto in vista di una loro collocazione sul set babilonese del nuovo progetto in cantiere. L’unione fa la forza, si dice, e l’incontro di intelligenze diverse produce risultati mirabili, come avviene in questo film dei Taviani. A ciò si aggiunge anche una considerazione ulteriore che costituisce il cuore di Good Morning Babilonia: tolto Griffith dall’equazione, la forza dei fratelli è tale solo se essi rimangono uniti. Lo sono quando tribolano per farcela, smettono di esserlo poco dopo. Di mezzo ci si mette anche la fatalità: durante una gravidanza parallela, una delle due mogli muore riuscendo però a far nascere il figlio. La rottura di un destino comune, ossia contemporaneamente di padri e mariti, è la crepa definitiva. Lo scontro provoca una divisione che a sua volta genera uno smarrimento identitario per entrambi. È il preludio ai titoli di coda delle loro esistenze verso cui si dirigeranno in schieramenti opposti.

Un discorso a sé va fatto su D. W. Griffith, iconicamente mostrato quasi sempre di spalle, con un grosso Stetson calato sulla testa, avvolto nella nube di fumo della sua sigaretta accesa. Dove? Nel luogo dove l’immaginario può solo collocarlo: dentro una sala cinematografica, intento a guardare e studiare ciò che viene proiettato sullo schermo. Che Griffith, superstar dopo il successo di Nascita di una nazione, abbia visto per la prima volta Cabiria durante un evento legato al Padiglione Italiano dell’Esposizione Universale di San Francisco nel 1915 (come si vede nel film) e si sia innamorato dei pachidermi in gesso tanto da volerli riprodurre anche lui, o che invece avesse visto il capolavoro di Pastrone già l’anno prima quando sbarca nei cinema statunitensi, poco importa ai fini della trama. E poco importa anche ai fini della scrittura di Griffith come personaggio. Il cineasta è trattato da Taviani coi guanti, a differenza dei suoi collaboratori descritti come rozzi, ignoranti e livorosi. Diversamente non potrebbe essere: il padre della narrazione cinematografica e dell’uso del montaggio, culturalmente sensibile come pochi suoi colleghi, cresciuto a Musica classica, Letteratura alta e Teatro di fine Ottocento, comprende la genialità dei due fratelli italiani e ne accoglie l’artigianato. Pertanto, Good Morning Babilonia va compreso nella cornice del semplice e ossequioso omaggio a Griffith, non del racconto mitico. Omaggio che è legato a una parentesi all’interno di una storia più ampia e che riguarda il cineasta solo in parte. Mitica invece è l’epopea, rapida come il sogno americano sa essere, dei due fratelli, emigrati come tanti per non tornare più.

Simone Tarditi